Libia, Europa. Business, torture e guerra

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Il caos libico rappresenta la maggiore sfida per l’Europa del presente. Interessi contrapposti nell’Ue, tentativi egemonici di potenze esterne e corsa all’accaparramento delle risorse energetiche hanno fatto dimenticare i diritti umani.
 

Doveva essere l’anno delle elezioni libere e democratiche. Invece i leader libici si preparano alla resa dei conti mentre fingono di negoziare la pace. Dal 2011 è così che vanno le cose. Il paese è a un punto di non ritorno. Troppe le armi in circolazione, per non venire utilizzate. Merito anche di un’Europa quanto mai divisa e inetta. A metà maggio è stato il segretario generale dell’Onu, António Guterres, a segnalare incongruenze e anomalie che fanno il gioco dei signori della guerra. Che poi, in un paese con quattordici clan tribali, vuol dire clan contro clan. Nient’altro che un “mafia State” dove i boss indossano divise da militari, tuniche da capi tribù o grisaglie da petrolieri.

Secondo Guterres il traffico internazionale di armi in Libia è fuori controllo e sta alimentando il caos. Il segretario generale ha motivato il proprio appello con la «singolare iniziativa» presa dall’Ue a fine marzo, quando da Bruxelles è stato deliberato di prolungare la missione navale EunavforMed. Ma senza navi.

Oltre che per contribuire ad arginare il traffico di migranti sui gommoni, l’operazione aveva come incarico anche quello di aiu­tare a sorvegliare sul rispetto del divieto di consegnare armi da guerra: un compito che ora Guterres chiede agli Stati di assolvere individualmente. Aver allontanato le navi, infatti, significa aver consapevolmente rinunciato al controllo comune. Per le fazioni libiche, una sorta di via libera al conflitto.

Informazioni pervenute all’Onu evidenziano l’ingresso in Libia di armamenti, inclusi aerei e lanciarazzi, destinati ad «entrambe le parti» in conflitto, ovvero i fedelissimi del premier al-Sarraj, a capo del fragile governo riconosciuto dalla comunità internazionale, da tempo sottoposto agli attacchi verbali e ai cannoneggiamenti del generale Haftar, l’uomo che partendo dalla Cirenaica ha conquistato due terzi del paese, piantando bandierine sui principali snodi petroliferi delle tre province: Fezzan, Cirenaica e Tripolitania. Precedenti rapporti dell’Onu indicavano gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto fra i paesi che – nel loro caso, a sostegno di Haftar – hanno violato l’embargo. Diversi osservatori, come ad esempio l’analista libico Mustafa Fetouri, indicano in Turchia e Qatar i fornitori di armi per le forze governative. Mosca, dal canto suo, ha inviato circa trecento uomini del Wagner Group, la milizia privata che, al pari della compagnia americana Blackwater, interviene senza compromettere il rispettivo governo. A favore di Haftar giocano un ruolo decisivo Russia e Francia, ma di recente anche gli Usa hanno mostrato di voler puntare sul generale. In altre parole, i potenti hanno scelto di “governare il caos”, facendo naufragare il negoziato e strappando all’Italia ogni residuale sfera d’influenza sulla sorte del paese nordafricano e delle sue ambite risorse energetiche.

A conferma di quanto il “grande gioco libico” sia allargato e trasversale, anche l’Iran ha inviato una nave. Il cargo è stato bloccato nel porto di Misurata a causa di un «carico sospetto» destinato al governo tripolino di al-Sarraj, riformulando e ribaltando uno schema classico. Se un tempo la regola aurea dei campi di battaglia rispondeva all’adagio secondo cui «il nemico del mio amico è mio nemico», in Libia assistiamo a una variante: il nemico (al-Sarraj) del mio nemico (Trump) diventa mio amico (al-Sarraj). La Libia, dunque, è un rebus che si può decifrare solo nell’ottica più ampia di quella che Bergoglio ha correttamente definito «Terza guerra mondiale combattuta a pezzi». Con il rischio di innescare un effetto domino non meno cruento di quanto non sia avvenuto in Iraq, Siria o Afghanistan.

Pagano sempre i più deboli

La partita sullo scacchiere di sabbia, sacrifica i più deboli: tanto i sei milioni di cittadini libici, quanto i 660mila stranieri, tra cui seimila migranti intrappolati nelle prigioni governative e costretti in condizioni disumane.

L’inferno deve assomigliarci molto. Alcuni hanno perso la vista a causa dei pestaggi. Altri hanno perduto l’udito dopo essere stati sistematicamente massacrati di botte alla testa. Altri sono diventati ciechi e sordi. Succede nei “centri di accoglienza” governativi. La denuncia è dell’Onu, che in un report della «Missione di supporto» (Unsmil) accusa le autorità di Tripoli. «A volte veniamo picchiati senza motivo, non so se è l’effetto dell’uso di alcool, droghe o semplicemente lo fanno per divertimento», ha raccontato uno degli “ospiti” nelle strutture del Dcim, il Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale.

Nel dossier di trenta pagine i funzionari delle Nazioni Unite riassumono «numerosi casi documentati» di migranti «detenuti nei centri del Dcim, sottoposti a tortura e altri maltrattamenti da parte delle guardie», aggravando le già «disumane condizioni di detenzione».

Molte delle testimonianze sono state incrociate con altre raccolte in Italia, interrogando migranti che portavano sul corpo i segni di gravi lesioni. Le condizioni di vita nei lager governativi non sono molto diverse da quelle in cui i profughi vengono imprigionati dai trafficanti in attesa di poter salpare verso l’Europa.

Gli investigatori dell’Unsmil hanno raccolto prove sull’uso sistematico della tortura da parte del personale che dovrebbe prendersi cura dei profughi. Gli stranieri non vengono accolti, ma catturati e rinchiusi in celle sovraffollate, all’interno di campi di concentramento realizzati con il supporto finanziario dell’Europa e dell’Italia. Gli aguzzini adoperano di solito bastoni di legno, tubi di ferro e grossi sassi. «Un certo numero di migranti intervistati dal personale Unsmil – si legge nel dossier – aveva ferite da arma da fuoco o coltelli; diversi migranti avevano ferite visibili sul corpo e sulla testa». Metà degli intervistati ha raccontato di avere assistito,

all’interno delle strutture governative, alla morte di altri migranti. Decessi provocati dalle insopportabili condizioni di detenzione: malnutrizione grave, malattie, abusi, pestaggi e umiliazioni.

Non di rado avvengono episodi di estorsione, preceduti da sessioni di tortura. Ricalcando le modalità dei trafficanti, le guardie passano un cellulare ai detenuti «costringendoli con la forza a telefonare ai propri parenti a cui chiedere di trasferire una somma di denaro, per garantire la loro liberazione». Durante la telefonata «il migrante può venire torturato per costringere le famiglie a pagare». Diversi intervistati hanno raccontato che non di rado, quando i parenti non potevano pagare, «i migranti sono deceduti in conseguenza delle torture».

Un sedicenne di origine senegalese ha riferito di essere stato detenuto per oltre quattro mesi in un centro del Dcim a Tripoli. «Le guardie hanno minacciato di ucciderlo, di picchiarlo, e ripetu­tamente gli hanno chiesto denaro», hanno scritto gli autori del rapporto inviato al quartier generale dell’Onu a New York. Alcuni minorenni hanno confermato quello che per mesi era stato un sospetto. Quando i migranti non possono permettersi di pagare, vengono venduti dai funzionari governativi a degli schiavisti, che obbligano con le buone o con le cattive le vittime a svolgere lavori forzati. Il padrone, una volta pagate le guardie, considera l’esborso come un debito contratto dal migrante con il suo nuovo “proprietario” e solo dopo che il capitale e gli interessi saranno stati restituiti, cioè dopo mesi o anni in stato di completa schiavitù, il migrante può sperare di venire messo su un barcone per l’Europa.

E in mare si continua a morire

Com’è possibile movimentare ogni giorno migliaia di persone, percorrere impossibili rotte desertiche, attraversare confini polverosi, raccogliere e trasferire denaro, fornire carburante alle centinaia di mezzi di trasporto, ottenere i lasciapassare, governare i centri di raccolta e poi gestire la flotta per il viaggio via mare – per molti l’ultima tappa in ogni senso – e tutto questo senza dare nell’occhio?

Secondo il governo italiano il business dei migranti è stato interrotto dalla chiusura dei porti. In realtà non solo i porti rimangono aperti, soprattutto ai cosiddetti «sbarchi fantasma». I trafficanti, infatti, hanno solo modificato le rotte tornando a fare pressione sulla Spagna attraverso le coste tunisine. Nella penisola iberica gli sbarchi sono triplicati, quasi del tutto compensando la contrazio­ne verso l’Italia, lasciando sostanzialmente invariato il beneficio economico per i boss della tratta di esseri umani. Anche la rotta balcanica nel 2019 è cresciuta di tre volte rispetto al 2018.

In mare, però, si muore ancora. Solo che raramente si viene a saperlo. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) i decessi registrati sulle tre principali rotte del Mediterraneo nei primi centoquaranta giorni del 2019 sono saliti a 512, pari ad oltre la metà dei quasi mille decessi registrati a livello mondiale. Sulle vittime, però, l’Oim ribadisce che si tratta di stime al ribasso, «date le difficoltà per disporre e raccogliere informazioni, il numero effettivo di persone che hanno perso la vita sulle numerose rotte della migrazione è probabilmente molto più alto». Da gennaio ad aprile, riferisce una nota dell’Oim, 19.830 migranti e rifugiati sono entrati in Europa via mare, circa il 30% in meno rispetto ai 28.325 arrivati nello stesso periodo dell’anno scorso. Gli arrivi in Spagna (7.666) e in Grecia (9.430) rappresentano l’86% di tutti gli arrivi in Europa via mare.

A livello mondiale, i decessi registrati dall’Oim dall’inizio dell’anno sono 999. Dal 2014 l’agenzia Onu ha registrato 31.947 morti. L’investigatore Onu che parla sotto anonimato si fa precedere da un rapporto di 299 pagine inviato al Consiglio di sicurezza: «Una filiera del genere – dice – non può passare inosservata. E non può prosperare senza il consenso e spesso la complicità di chi oggi afferma di voler porre fine al traffico di migranti».