L’uso politico della religione

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Una riflessione sull’uso politico della religione e la sua inevitabile strumentalizzazione si rende necessaria in tempi che vedono fenomeni di questo tipo diffusi in tutto il pianeta, al punto da apparire quasi strutturali. Fenomeni che suscitano maggiori attenzioni quando sorgono o si trasformano in movimenti politici che si richiamano  esplicitamente alla religione nel loro agire e creano condizioni di chiusura, di conflitto e di esclusione. Con rischi evidenti di frammentazione interna e di destabilizzazione anche internazionale. E laddove vi sono giovani democrazie, congiurano a indebolire la concezione decisamente inclusiva e pluralista della cittadinanza.

Non è che manchino riflessioni di filosofi, di teologi, di antropologi e di politologi sull’argomento, anzi è da tempo che l’attenzione è rivolta a decifrare il tipo di relazioni che intercorrono tra le diverse sfere della vita sociale, la religione in primis, eppure oggi il problema si presenta con caratteri così variati da richiedere un surplus di attenzione. Senza la pretesa di giungere a cogliere l’intera gamma delle posizioni o di dare una risposta definitiva e pienamente oggettiva. È aumentata infatti la consapevolezza che l’interpretazione dei dati storici è sempre condizionata dalle precomprensioni culturali dei soggetti interpretanti. Inoltre, i significati che vengono proposti rimangono aperti e il sapere che producono si presta a essere superato e incrementato da ulteriori ricerche.

Resta comunque acquisito il fatto che le religioni hanno svolto nel passato, quasi ovunque, una funzione di legittimazione suprema della società e, in seguito, dello Stato. Legittimazione come spiegazione e giustificazione dell’ordine sociale esistente nei suoi aspetti cognitivi e normativi. La fragilità dell’ordine sociale, infatti, con il rischio  che le norme vigenti non siano più seguite sotto l’incombere di sconvolgimenti sociali, di guerre o di catastrofi naturali, ha favorito questa funzione: il cristianesimo, ad esempio, è stato funzionale nella riproduzione delle diverse società europee (anche come religione di Stato), almeno fino alla prima rivoluzione industriale e  alla Rivoluzione francese. Ma nella modernità avanzata, in contesti diversi, nella crisi o nella mancanza di elaborate ideologie, le religioni vengono spesso usate in prospettiva identitaria per battaglie politiche interne ed esterne. E sempre nella modernità, sono nate forme diverse di fondamentalismo, caratterizzate dal ri-pensamento  del rapporto tra religione ed esercizio dell’arte del governo. Poiché i vincoli di cittadinanza sono divenuti precari, ne è derivato quasi ovunque un senso di insensatezza nel vivere sociale che appare “senza fini ultimi e senza cuore”. Non sono mancati perciò progetti, diversamente gestiti, tesi a riportare al centro il primato della legge  religiosa sulla stessa legislazione positiva. È il caso di alcuni movimenti islamici nell’area mediorientale e africana, ma anche in contesti cristiani, ebraici e nell’area vasta delle religioni orientali.

La situazione oggi appare ancor più variegata e contradditoria, sì da richiedere l’analisi di nuovi dati e interpretazioni rinnovate, senza la pretesa di essere esaustivi: cambiano spesso gli attori, i movimenti, le loro strategie, il loro universo di senso e di valori, i rapporti che instaurano con i rappresentanti ufficiali delle diverse religioni.  Talvolta questi sono contemporaneamente leader religiosi e operatori politici. Resta comunque il fatto che l’uso politico della religione è una concausa dei tanti conflitti in atto nel mondo attuale, compreso quello che preoccupa tutta l’Europa generato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa. L’alleanza tra Putin e il  patriarca metropolita di Mosca Kirill, in funzione subalterna, è un esempio in proposito (si vedano gli interventi di Natalino Valentini e di Adriano Dell’Asta in «Dialoghi» 4/2022, pp. 60-66; 75-76).

Contro l’uso politico della religione è intervenuto più volte papa Francesco, chiedendo alle religioni, e alle tre grandi religioni monoteistiche in particolare, di dissociarsi da comportamenti che permettono la loro strumentalizzazione politica, per intraprendere insieme un cammino di pace in nome di un Dio «il cui amore è lo stesso per  ogni persona, di qualunque religione sia. E se è ateo, è lo stesso amore»1. Di grande rilievo, valutabili nella loro portata solo nel lungo periodo, il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato ad Abu Dhabi da Francesco, insieme al sunnita Grande Iman Ahmad al Tayyeb della moschea  cairota di Al-Azar, e l’incontro a Roma di papa Francesco con lo sciita Ayatollah Sayed Abud al Hassan, rettore dell’Università di Qom in Iran. L’obiettivo, «in nome della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce, li rende eguali»2, è quello manifestato nel documento citato: «adottare la cultura del dialogo come via, la  collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio»3.

In mancanza di questo ripensamento e della sua ricaduta nella prassi, come mostra Enzo Pace in un ampio excursus storico-sociologico, una religione può far pressioni sullo Stato perché difenda «la sua pretesa di verità rispetto ad altre, rinuncia alla sua vocazione universalistica ed entra come parte nel confronto politico» (p. 31) e,  viceversa quando la religione diviene per il potere politico uno strumento per garantire la coesione sociale «la svuota di consenso politico, prende parte alla contesa politica sino alla guerra» (ivi). E ciò che mostra anche Olivier Roy, una voce decisamente laica, prendendo in considerazione il contesto europeo nel quale per lungo  tempo il cristianesimo è risultato dominante. I processi di secolarizzazione in atto e la relativa perdita di influenza della Chiesa sulla politica e sulla cultura, vengono compensati dall’assunzione del cristianesimo come elemento identitario da movimenti e partiti politici populisti di destra, i cui leader, spesso non praticanti e non sempre rispettosi  dei codici etici della Chiesa e delle Chiese, manifestano «una identità "cristiana" staccata da qualsiasi cultura cristiana reale» (p. 36), e pertanto non contribuiscono a una rivitalizzazione del cristianesimo. Confrontando poi il contesto europeo con il mondo islamico, emerge come, in quest’ultimo, nessuno possa pretendere di avere il monopolio della religione in politica, e come, per molti movimenti islamisti, la sovranità popolare non sia fonte di legittimazione del potere politico. Ma ciò che accomuna l’appello diretto al popolo in questi differenti contesti è l’uso della religione in “difesa” dei valori della tradizione4.

In riferimento più ravvicinato alla situazione italiana, Roberto Cipriani analizza le trasformazioni in atto nella religiosità: un certo distanziamento dalle istituzioni religiose e la netta diminuzione della partecipazione alla vita liturgica preparano il terreno favorevole a una concezione della religione in chiave prevalentemente identitaria,  sospettosa nei confronti di altre fedi (in particolare dell’islam) e all’adesione a partiti politici che si richiamano a una narrazione e a un’agenda politica non solo populista, ma anche sovranista.

Rappresenta un caso a sé, come evidenzia Piero Stefani, la scena politica israeliana dove da anni si confrontano partiti e movimenti che si differenziano per la visione riguardante la configurazione costituzionale e statale del paese, con in più la presenza e l’incidenza di quelli che si richiamano al sionismo religioso identitario. Si  accentua in tal modo la spinta alla colonizzazione dei territori palestinesi e si allontana la possibilità che si giunga a rimettere in movimento il processo di pace israelo-palestinese, dopo i tentativi del passato tragicamente falliti. Infine, Ali Raja Saleem mostra come è stata costruita socialmente e rafforzata in tempi relativamente recenti, una corrente ideologica, oggi dominante in India, con il nome di Hindutva (“induità”). Prospettiva che ha favorito l’ascesa al potere dell’attuale premier Narendra Modi, ispiratore di un’aggressiva politica di emarginazione, praticata attraverso i ventotto stati federati, sia nei confronti dei dalit (pari o fuori casta), sia delle  minoranze cristiane e musulmane. Si tratta di un’operazione deliberata di integrazione nella tradizione religiosa di elementi che ne modificano profondamente il significato, giacché l’induismo, considerato dalla sua origine, è apparso come «multiculturale, inclusivo e non contiene un nucleo dottrinale» (p. 57). Infine, il Forum del  dossier che ha coinvolto il rabbino Alon Goshen-Gottstein, fondatore della organizzazione non governativa Elijah Interfaith di Gerusalemme, il professor El Hindy della libanese fondazione Adyan e don Stefano Ancora, presidente della Fondazione Parco culturale ecclesiale “Terre del Capo di Leuca”, propone percorsi formativi e  metodologie conseguenti per giungere a un dialogo sempre più stretto tra le religioni, in vista di un apporto specifico alla riconciliazione tra gli umani, elaborando una cultura e una prassi conseguenti. Le convergenze etiche sul tema della pace possono essere le premesse di un severo impegno controcorrente.

Note

1 Fratelli tutti, 281.
2 Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019.
3 Ivi.
4 Il rapporto tra islamismo e populismo sarà approfondito ulteriormente da Sihem Djebbi sul blog di «Dialoghi» (rivistadialoghi.it/blog).