Bernardo Mattarella e la lunga marcia del cattolicesimo democratico

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Esponente di spicco del cattolicesimo democratico siciliano, Bernardo Mattarella ha unito l’esperienza politica anche da ministro della Repubblica con un’intensa vita di fede, alimentata e testimoniata all’interno dell’Azione cattolica. A cinquant’anni dalla morte, rileggerne la personalità – insieme alla storia del cattolicesimo in Sicilia – consente anche di comprendere ispirazioni e scelte dei figli Piersanti e Sergio.

Il 1° marzo di cinquant’anni fa scompariva Bernardo Mattarella, padre di Piersanti, brutalmente assassinato il giorno dell’Epifania del 1980 da presidente della Regione Sicilia, e di Sergio, oggi capo dello Stato. Un uomo che spese i propri talenti al servizio del laicato cattolico organizzato e

dell’espressione partitica del cattolicesimo democratico. Giovane popolare nella fase crepuscolare del partito, presto divenuta «catacombale», per usare l’espressione di Gabriele De Rosa, raccolse durante il fascismo il testimone di un sistema di valori, alimentandolo, grazie anche a un’intensa attività pubblicistica, nelle organizzazioni di Ac di cui fece parte, la Gioventù e l’Unione uomini, in entrambe da consigliere superiore, e attraverso mai interrotte frequentazioni con quanto sopravviveva a Roma di quel sistema di valori, nei cenacoli clandestini che si riunivano attorno a De Gasperi, studiando le opere del maestro Luigi Sturzo, in esilio. Da parecchie figure trasse in quegli anni un esempio di vita: dai sacerdoti Giuseppe Ancona e Gaspare Morello a Francesco Vivona, Vincenzo Mangano, Igino Giordani. Alla caduta del regime, la solida formazione gli consentì di apportare un determinante contributo per l’affermazione dei principi del cattolicesimo democratico, dapprima nella sua Sicilia, dove fu tra i fondatori della Dc nella convulsa fase della lotta al separatismo, poi nel paese attraverso l’assunzione di ruoli affatto secondari nel partito e nel governo della Repubblica. Innumerevoli i circoli di Ac delle federazioni diocesane di Sicilia dove per un ventennio, domenica dopo domenica, fianco a fianco agli assistenti ecclesiastici e sotto la paterna e benevola guida dei prelati, formò generazioni di giovani cattolici, senza trascurare i rapporti con i sopravvissuti del popolarismo prefascista. Comunione di spiriti e fratellanza di fede che gli consentirono di proporsi in maniera credibile all’elettorato cattolico quando il paese fu chiamato alla ricostruzione del tessuto civile. Ne ottenne larga messe di suffragi nel corso di tutto il suo impegno politico, nel quale assunse più volte la carica di ministro della Repubblica, valorizzato da De Gasperi e poi tra i più vicini ad Aldo Moro.
Ricordiamo Bernardo Mattarella anche attraverso due figure a cui, da fervente cattolico, scelse di affidare la missione di una crescita nella fede dei due figli sopra citati. Due uomini che conobbe negli anni dell’immediato primo dopoguerra quando, giovanissimo, partecipava al fiorire di iniziative e al rinsaldarsi di una ragnatela di legami tra esponenti dell’Ac e attivisti del Ppi, entrando in contatto con gli elementi più dinamici del cattolicesimo siciliano.
Dopo anni di assidua frequentazione li ritenne esempi concreti di vita cristiana e, con il sacramento del Battesimo, volle che accompagnassero i suoi figli sul cammino della famiglia della Chiesa: Pietro Mignosi per Piersanti e Salvatore Aldisio per Sergio. Senza trascurare, peraltro, il momento in cui tali scelte ideali furono fatte, rispettivamente il 1935 e il 1941, per sgombrare il campo da ogni sospetto di scelte utilitaristiche. Per quanto noti, i due ben poco potevano offrire in termini pratici durante il regime.
Vogliamo ricordare Mattarella attraverso tali scelte, nel tentativo di offrire, ai più, la lettura di una “lunga marcia” che affonda le radici nella storia contemporanea più profonda del nostro paese. Nella storia dei fermenti culturali, nel caso di Mignosi, ma anche nella storia della lotta alle disuguaglianze e all’arretratezza, nel caso di Aldisio, di una regione simbolo, la Sicilia, che nel 2015 ha espresso, per la prima volta nella storia della Repubblica, la massima carica dello Stato, ricongiungendo idealmente così parecchi fili rossi mai recisi.
Mignosi e Aldisio, dunque.
Personalità complessa, poliedrica, docente, poeta, narratore, editore, filosofo dallo spirito inquieto: impossibile riassumere l’attività di Mignosi in poche righe. Di certo, un elemento di aggregazione. Giuseppe Alessi, suo allievo nel 1921 al liceo di Caltanissetta, ha ricordato come raccogliesse attorno a sé i giovani anche fuori dagli orari scolastici. Ad Alessi, primo presidente della Regione Sicilia, succederà anni dopo Piersanti, giusto per citare uno tra i fili rossi mai recisi.
Battagliero ma garbato polemista (note le querelle culturali, negli anni Trenta, con Bargellini e il gruppo de «Il Frontespizio»), Mignosi è in rapporti con Gobetti, che nel 1925 gli pubblica il volume L’eredità dell’Ottocento. Saggio storico. Collabora a «La Rivoluzione liberale» e a «Il Baretti»,  coinvolgendo altri giovani scrittori siciliani sconosciuti allora, tra i quali i nisseni Calogero Bonavia e Luca Pignato e il catanese Salvatore Vitale. Di Mignosi, su «La Rivoluzione liberale» del 25 ottobre 1925, è l’ultimo del lungo elenco di articoli “imputati” alla rivista cui segue la diffida a Gobetti a cessare ogni attività giornalistica ed editoriale. In esso, Mignosi critica i risultati dell’opera del prefetto Mori e scrive apertamente delle collusioni tra mafia e fascismo, concludendo con una disamina e una ricetta straordinariamente attuali: «[La mafia] si distrugge in un senso positivo: attraverso una illuminata e chiaroveggente educazione politica. Nei paesi come il nostro, per far penetrare la nozione dello Stato è necessario che passino molti e molti anni; è necessario che l’unità d’Italia diventi una esperienza in atto. Bisogna risolvere la questione del Mezzogiorno».
Nel 1925 Mignosi è anche tra i collaboratori di «Parte guelfa», la rivista cripto-popolare di Igino Giordani e Giulio Cenci; «un gruppo dimenticato nella serie dei movimenti antifascisti» ricorderà Giordani nella ristampa del 1962 di Rivolta cattolica. Su Giordani l’amico Mignosi pubblicherà nel 1936 per «La Tradizione. Rivista di storia, filosofia e letteratura», da questi fondata nel 1928, una biografia redatta proprio da Mattarella, il quale, in evidente sintonia con Mignosi, definirà Giordani «un maestro» cui ispirarsi quando, alla vigilia delle tre encicliche di Pio XI del marzo 1937, «il contrasto tra il risorgente paganesimo, che ha anche non indifferenti manifestazioni collettive presso popoli e nazioni, e il Cristianesimo si va facendo sempre più acuto e grave». A lungo dimenticata, di recente l’opera di Mignosi narratore, attività per cui fu forse più apprezzato e definito il “Verga cristiano”, è stata rivalutata. In occasione dell’anno sacerdotale, in una carrellata sulla figura del prete nella letteratura, il gesuita Ferdinando Castelli scrive su «La Civiltà Cattolica» (Il prete nella letteratura, vol. IV, 2009): «Accanto ad abbé Donissan di Bernanos possiamo collocare don Michele Ingabbietta, protagonista del romanzo Perfetta letizia di Pietro Mignosi, tra i più importanti del primo Novecento». Ancora nel 2015, l’arcivescovo di Catanzaro Vincenzo Bertolone, girgentano di San Biagio Platani (giusto per tornare ai fili rossi mai recisi), nella lettera ai presbiteri per il Giovedì Santo cita Mignosi e Perfetta letizia, romanzo «dove viene messo in risalto il delicato tema dell’essenza sacerdotale».
Alla morte dell’amico, su «Gioventù italica» (settembre 1937) Mattarella ne sottolinea la tolleranza e la ricerca della comprensione delle ragioni degli altri. Ma ciò che, a nostro avviso, più lo colpì fu il coraggio di Mignosi di guardare anche al pensiero eterodosso.
Un filosofo cattolico che cammina «proprio sul ciglio del burrone», come scrive il gesuita Pietro Franceschini su «Gregorianum» (vol. X, 1929) recensendo la produzione filosofica di Mignosi fino all’alba della stagione de «La Tradizione». Il recensore fa notare il rischio, per i lettori, di un «deviamento dalle sane dottrine filosofiche [che] li potrebbe condurre a quello dalle dottrine religiose». Giudizio non dissimile da quanto Giuseppe Petralia, allora giovane sacerdote e futuro vescovo di Agrigento – segretario di redazione e tra i più assidui collaboratori de «La Tradizione» assieme a un altro sacerdote, il brontese Vincenzo Schilirò, e a laici come Giuseppe Sala, Erminio Cavallero e lo stesso Mattarella – tracciando nel 1935 un profilo di Mignosi scriveva di un temperamento audace, che subiva il fascino dell’abisso. Il coraggio che Mignosi dimostrò raccontando il torbido e corrotto tessuto socio-politico nel quale è ambientato Perfetta letizia, poi sostenendo su «La Tradizione», già nel 1937, la natura antiumana e anticristiana della teoria che afferma l’esistenza di razze inferiori. Si tratta del coraggio che lo stesso Mattarella poi dimostrerà proseguendo la polemica antirazzista su «Voce cattolica», programmando la pubblicazione di una serie di articoli di Mangano sul razzismo, cui seguirà il sequestro del giornale. Coraggio che lo accompagnerà poi nel corso della carriera politica, resistendo in più occasioni a tentativi di condizionamento da parte della gerarchia ecclesiastica.
Quel coraggio che dimostrerà il figlioccio di battesimo di Mignosi, Piersanti, nell’affrontare cristianamente le nere nubi che si addensavano sul suo capo.
Anche i rapporti tra Aldisio e Mattarella risalgono al primo dopoguerra. Giovane attivista cattolico a inizio secolo nella società rurale della sua Terranova (oggi Gela) prossima al calatino, centro di irradiazione del verbo sturziano, al ritorno dal fronte Aldisio è eletto segretario del Ppi nisseno e nel 1921 deputato, facendosi interprete delle istanze della piccola proprietà contadina per il frazionamento dei latifondi. Tra i giovani più vicini a Sturzo, avversa decisamente il fascismo sin dal suo nascere. Rappresenta la Direzione nazionale nei comitati provinciali dell’isola e nel 1924, in un clima da terrore provocato dalle squadracce fasciste, riesce a mantenere il seggio. 
Aventiniano, scrive che «dall’alleanza di tutti gli interessi parassitari feriti o minacciati non già dal disordine postbellico di natura transeunte, ma dalle nuove prospettive della nostra ricostruzione morale ed economica sorge il regime che ci allieta» («Echi e Commenti», 25 ottobre 1924). Dalla campagna elettorale del 1924, da presidente del comitato regionale, Aldisio rimarrà il punto di riferimento del Ppi in Sicilia fino allo scioglimento, come emerge dal carteggio tra Mattarella, da fine 1924 giovane segretario del Ppi nella natia Castellammare del Golfo, due dei più stretti collaboratori di Aldisio, Carmelo Molinari e Benedetto Giunta, e altri esponenti locali delle province della Sicilia centro-occidentale.
L’attivismo nel sistema cooperativistico e creditizio cattolico siciliano aveva portato tuttavia Aldisio a crescenti responsabilità e conseguente sovraesposizione finanziaria. Il regime utilizzerà proprio questa leva per terrorizzarlo, facendogli intravedere lo spettro di condanne penali, responsabilità patrimoniali e rovina economica.
La corrispondenza con Mattarella, a partire dai primi anni Trenta, ci restituisce un uomo ormai “a riposo forzato” tra aspre difficoltà, aggravate dalla scelta intransigente nei confronti del regime.
Nel settembre del 1932, scrive all’amico Bernardo: «Grazie sempre del tuo fraterno interessamento [...], avrei interesse di sapere se c’è speranza o no per me di essere salvato in qualche modo».
Don Giuseppe Costa, tra i più attenti biografi di Aldisio, scrive che in quegli anni questi viveva nella «tristezza dell’abbandono e della povertà. Non pochi dello stesso mondo cattolico siciliano l’ignorarono temendo perfino di salutarlo». Nel 1933 Mattarella lo invita al proprio matrimonio ma Aldisio, nel declinare l’invito causa «depresse condizioni psicologiche», aggiunge: «Vedo assai nero dinnanzi a me. [...] Finora non ho ricevuto il mandato di comparizione ma penso che non tarderà». Allontanatasi la minaccia dell’arresto, Aldisio ricomincia a interessarsi di ciò che accade. Nel 1937 scrive all’amico Bernardo, a proposito delle tre encicliche di Pio XI: «Ho letto le tre encicliche. Certo sono una riaffermazione in pieno del pensiero e dell’azione leoniana, ma si avrebbe oggi la forza di sostenere su tutti i fronti tali affermazioni contraddette dal recente passato? Ma non c’è da scandalizzarsene.
Il papato è fatto così, spesso gli succede nella storia di distaccarsi dalla Chiesa per ritornarvi nelle stesse persone, in pieno al momento di parlare di dottrina e di pensiero, non parliamo della fede che è fuori causa». Bernardo lo invita alle manifestazioni di Ac ma Aldisio declina gli inviti, per «ragioni di opportunità», preferendo rimanere, scrive, «nel silenzio e nella solitudine alla quale mi diedi qualche decennio fa». Ancora nel febbraio 1941, in un rapporto prefettizio si legge che Aldisio, pur mantenendo contegno riservato, «continua a professare idee di opposizione al regime». A questa data l’esempio di fermezza e di alterità dal regime che Aldisio offre a Bernardo, il rapporto di amicizia tra i due sono tali che nel luglio 1941, alla nascita del quarto figlio, Sergio, Bernardo gli chiede di tenerlo a battesimo. Lontani ormai gli anni in cui sembrava aver perso la speranza, nell’accettare Aldisio scrive: «Che il Signore gli riservi vita meno agitata di quella nostra.
Egli viene al mondo in un duro momento ma speriamo che non abbia a vivere e ricordare nulla di questi giorni, e che per questi cari piccoli si prepari un avvenire più lieto e più tranquillo». Il rapporto tra Aldisio e Mattarella si cementerà ulteriormente, se possibile, con l’instancabile attività alla caduta del regime, protagonisti entrambi della nascita della Dc siciliana. La lunga marcia del cattolicesimo democratico siciliano, passando per Aldisio e per Bernardo, da Sturzo è giunta sino al Colle.
Un’ultima notazione a proposito della scelta di Bernardo, che vale per entrambi, Mignosi e Aldisio. Mignosi aveva avuto una bambina, scomparsa in tenerissima età. Aldisio invece non ebbe figli.
Chissà che non vi sia stato, da parte di Bernardo, il desiderio di offrire ai due quella speranza che il dono di aver figli rappresenta.
Scelte. Dai frutti riconoscerete l’albero; dalle scelte, aggiungiamo, conoscerete l’uomo.

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Antologia
Commemorando l’anniversario della Rerum novarum sull’organo del Consiglio regionale siculo della Gioventù cattolica – periodico che poi dirigerà nella seconda metà degli anni Trenta – il diciannovenne Bernardo Mattarella traspone il tema sul piano dell’attualità. Nella conclusione la prima testimonianza pubblica, a mezzo stampa, del suo spirito antifascista. Nell’insieme, l’articolo può essere considerato il manifesto a cui rimase fedele per tutta una vita
 
XV MAGGIO
da «Primavera siciliana» del 20 maggio 1924 Non può questo giorno delle rivendicazioni cristiane passare inosservato; non può non essere meditato nel suo intimo e profondo significato da quanti appartenenti all’Azione Cattolica dobbiamo anche alla causa degli umili dedicare la modesta nostra opera.
Tutti i lavoratori cristiani sorpassando col pensiero gli oceani e le barriere nazionali, uniti in una intima comunione spirituale, rivolgono, in questo giorno sacro alla redenzione del lavoro, le loro menti alla rocca del Vaticano, faro indefettibile di luce.
Sono milioni e milioni di lavoratori che, con l’anima non corrotta da insana propaganda d’odio, fidenti nell’azione purificatrice della Chiesa, rivolgono la loro preghiera a Dio, un pensiero di riconoscenza ai grandi apostoli che da Ketteler e da Leone XIII a D. Albertario e a Giuseppe Toniolo nulla risparmiarono in pro del popolo lavoratore.
Non c’è chi non veda nella Rerum Novarum, magna charta della democrazia cristiana, la rinascita morale ed economica del prole tariato. È la Chiesa che nella perennità dei suoi insegnamenti, ripetendo come una volta il Maestro Divino: Misereor super turbam, scende nelle piazze in mezzo al popolo che soffre a dire la parola dell’amore e della carità cristiana, contro gli apostoli della lotta di classe; a dire la sua parola di condanna per la borghesia capitalista; a reclamare, contro la concezione «senza cuore» del liberalismo imperante, la giusta e cristiana distribuzione delle ricchezze.
Il 15 maggio 1891 la lotta per la redenzione operaia perde il carattere rivoluzionario e antireligioso, che fino allora l’aveva caratterizzata. Leone XIII disarmava gl’ingordi capitalisti che nella Religione credevano di trovare il loro puntello; disarmava i socialisti che nella Chiesa additavano un nemico del popolo e che, per comodità demagogica, si sforzavano di spegnere nel cuore dei lavoratori la fiamma sacra della fede. 
In un momento quanto mai grave e difficile, in cui l’urto feroce delle classi sembrava dovesse trascinare nel marasma rivoluzionario la società tutta, la parola di Leone XIII risuonò apportatrice di pace e di amore. Non dittatura di classe, sia essa capitalista o proletaria, ma collaborazione, armonia, carità fraterna; non odio e lotta, ma amore e concordia, avevano predicato alcuni apostoli di parte nostra; Leone XIII dall’alto dell’Apostolica Sede venne ad incoraggiare e ratificare l’opera altamente cristiana di questi apostoli, ad additare a tutti gli altri cattolici questo nuovo campo d’azione. E le masse lavoratrici fino allora abbandonate ai demagoghi di professione, trovano nei sindacati cristiani la tutela dei loro interessi morali e materiali, negli organizzatori nostri, una guida sicura nella soluzione pacifica delle vertenze fra capitale e lavoro.
Ma quest’azione della Chiesa, che era la continuazione dell’opera svolta da essa nelle gloriose repubbliche e negli invitti comuni del Medioevo, fu tacciata di sovversivismo, e le nostre organizzazioni dovettero subire le stesse persecuzioni di quelle socialiste. E si dovette vedere D. Davide Albertario incarcerato assieme a Filippo Turati; l’Osservatore Cattolico soppresso assieme al Secolo e all’Italia del Popolo. Ma ciò non valse che a temprare maggiormente gli animi dei novelli apostoli, a rinsaldare le organizzazioni nostre che in un domani radioso dovevano darci la magnifica fioritura dei sindacati cristiani; frutto del sacrificio inestimabile dei nostri precursori.
Ed in questo momento, in cui la raffica d’un paganesimo reazionario rivestito a nuovo sembra travolgere l’opera di anni ed anni di lavoro e di sacrificio, il ricordo del 15 maggio sia di ammonimento e di richiamo a quanti, tiepidi e vili, hanno abbandonato il posto di combattimento nell’ora della prova, di incoraggiamento a quanti per il bene hanno scelto la via aspra della lotta.