Quando il corpo parla

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Il corpo è implicato come non mai in questo tempo. È al centro dell’attenzione, è il nodo dei tentativi di immaginare il mondo, le relazioni, il futuro, nella soluzione di tutto ciò che ci angoscia o che frena il nostro procedere.
 

Il nostro corpo è linguaggio. Tutto il nostro corpo. E non basta osservarne dall’esterno i movimenti. Non basta registrare i gesti, descrivere le espressioni o le posture. Il linguaggio del corpo è più profondo di quello che si vede; più sottile rispetto a quello che possiamo osservare o ascoltare. È un linguaggio che tiene insieme interno ed esterno, tempo e spazio, profondità e ulteriorità, immanenza e trascendenza. È un linguaggio eccedente che non si lascia inquadrare, contenere, catturare. Perché il linguaggio del corpo coincide con ciò che noi siamo.
Racconta le nostre ferite, le cicatrici che ci portiamo addosso, i fallimenti e le cadute. Racconta però anche le nostre pretese, i nostri deliri e le nostre fragilità negate. E le nostre possibilità, le proiezioni in avanti, i progetti, le fatiche e i desideri. Il corpo è un medium, una realtà attraverso la quale siamo, comunichiamo, viviamo le relazioni che fanno la nostra esistenza; ma è anche la nostra stessa realtà di viventi, di esseri in relazione.
Per questo, in una riflessione come quella che stiamo portando avanti da più numeri sul Farsi Dio quale cifra di questo strano tempo che nega ed esalta l’umano proiettandolo verso orizzonti inauditi di possibilità, non poteva mancare un numero dedicato al rapporto tra corpo e salvezza. Tutto passa attraverso il corpo. Caro cardo salutis, scriveva Tertulliano. Il corpo è cardine della salvezza. Non c’è salvezza che non passi attraverso il corpo, che non lo implichi radicalmente. Ma quale salvezza? E quale corpo?

Il Dossier curato da Piero Pisarra aiuta a scandagliare i tanti risvolti di questo rapporto, originario e imprescindibile, a partire dalla discussione contemporanea sulle possibilità di potenziamento o di evaporazione del corpo nella ricerca di una salvezza tutta umana, fatta da mani d’uomo e tale da determinare, però, nuove forme di dipendenza e di dispotismo in cui proprio l’umano rischia di essere negato.
Il corpo è implicato come non mai in questo tempo che pure prospetta l’oltrepassamento della materia nel trionfo del digitale.
È al centro dell’attenzione, è il nodo dei tentativi di immaginare il mondo, le relazioni, il futuro, nella soluzione di tutto ciò che ci angoscia o che frena il nostro procedere. Si interviene su di esso per potenziarlo, modificarlo cancellando i segni della fragilità, o facendone un duttile strumento dentro logiche di potere di ogni genere. Lo si riscrive nell’ibridazione con la tecnica o nella riduzione a immagine da esibire in una comunicazione tanto labile quanto pervasiva. È dentro il gioco della trasparenza ad ogni costo e sotto l’occhio di un sistema di controllo che tende ad essere globale in una pretesa di governo assoluto dai tratti vagamente messianici.
Eppure il corpo, il nostro corpo che cresce e poi invecchia, si fortifica o si piega, che sperimenta la fatica e il dolore ma che è anche la cifra di una cura essenziale per noi come l’aria, è lì a dirci che non tutto è nelle nostre mani, che siamo dati a noi stessi. Il corpo è nodo di relazioni: quelle che attraversano la nostra vita, la relazione con gli altri, il mondo, il tempo; ma è anche il nodo di una relazione dentro la quale siamo e che ci precede, ci supera. Il corpo è cifra di una trascendenza che ci permea come il respiro più profondo del nostro essere. Non bastiamo a noi stessi. Ma non perché per raggiungere gli obiettivi sempre più grandi e ambiziosi, così come per i gesti più minuti del quotidiano, abbiamo bisogno degli altri e di ciò che ci sta intorno, ma perché non siamo senza l’altro, perché l’alterità è scritta dentro di noi, dentro il nostro corpo, in ciò che è e che diviene, nel suo esserci dato, al principio e nei mille intrecci di cui è fatta la nostra vita.
Non è una questione puramente tecnica. È fatto di sfumature questo “esser dati” che reca in sé i tratti della trascendenza. Ed è fatto di significati: di un senso continuamente riemergente persino nei nostri deliri di onnipotenza.

C’è una dimensione della corporeità che spesso ci sfugge, ma che è quella più autentica. Michel Henry la definisce “corporeità originaria” per dire quanto essa sia profonda in noi, intima e insuperabile. Ed è la corporeità come radicale e intimo sentire, come avvertimento interiore a cui rimanda e in cui si radica ogni nostro particolare sentire. È l’avvertire noi stessi, non semplicemente quello che facciamo o pensiamo e neppure l’approdo di raffinate tecniche introspettive. È al contrario quell’avvertire noi stessi che si dà quando tacciono i rumori, quando scivolano sullo sfondo le nostre arzigogolate costruzioni di senso, quando la sofferenza è sofferenza e la gioia è gioia. Nella nudità disarmata del nostro sentire, nel silenzio interiore e nel segreto del cuore, lì la parola che ci abita si lascia avvertire. Ed è la parola della vita: della nostra vita e della Vita di Dio in cui siamo dati a noi stessi.
Il nostro corpo parla, il nostro sentire è esso stesso parola. La parola più profonda del nostro corpo è una parola di relazione è la parola che ci restituisce alla nostra “nascita” all’esperienza insopprimibile dell’esser vivi non a partire da noi stessi ma a partire da altri e da un Altro.
E questa parola è parola di salvezza perché ci libera dai nostri devastanti deliri di onnipotenza per aprirci all’avvertimento della pienezza che ci abita. Non una chimera verso cui disperatamente ci sporgiamo ma la comunione: l’“alito di vita” che ci fa vivi nel dono ricevuto e accolto.
Non abbiamo bisogno allora di modificare, alterare, correggere fino all’esasperazione fragilità e imperfezioni, non abbiamo bisogno di soffocare o negare, abbiamo bisogno di ritrovare questo nostro corpo in ciò che è e in ciò che è capace di dirci. E nella parola del nostro corpo, se ascoltata fino in fondo, ritroveremo la Parola che è principio e compimento, sorgente inesauribile in noi della pienezza a cui aspiriamo.