Verso la cinquantesima Settimana sociale dei cattolici in Italia

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Nel 2024 sarà celebrata la cinquantesima Settimana sociale dei cattolici in Italia, di cui recentemente è stato pubblicato l’Instrumentum laboris. La questione centrale è rappresentata dalla partecipazione alla vita democratica, connessa ai temi dell’astensionismo e dell’individualismo. Particolarmente rilevante è l’analogia con il valore del processo sinodale, visto come mezzo per incentivare una partecipazione attiva e una corresponsabilità, tanto nel contesto ecclesiale quanto in quello civile.

La cinquantesima Settimana sociale dei cattolici in Italia, che si svolgerà a Trieste dal 3 al 7 luglio 2024, arriva dopo più di un secolo dall’avvio di questo appuntamento nazionale, e sarà dedicata non a un unico tema, ma a una questione trasversale rispetto a tutte le sfide che potremmo individuare nell’agenda del Paese: quella della “partecipazione” alla vita democratica. La Settimana proverà ad andare, come propone il titolo, “Al cuore della Democrazia”, con l’intento di contribuire a dare voce all’Italia che ha a cuore il vivere insieme, la cooperazione sociale, la cura delle istituzioni, all’Italia che ha esperienze e idee su come migliorare la vita civile.

Questa stessa Italia, che raccoglie molti cattolici – ma non solo, ovviamente –, racconta di grandi risorse ma anche di punti di fragilità della democrazia, di cui sarà importante discutere e ragionare. Il primo, il più evidente, è proprio il progressivo calo della partecipazione alla vita pubblica da parte dei cittadini: non si tratta solo dei numeri, preoccupanti, dell’astensionismo alle urne. Si tratta, più profondamente, di una distanza culturale crescente rispetto a quell’indicazione dell’articolo 4 della Costituzione, che indica il contribuire al “progresso materiale o spirituale della società” come un “dovere” di cittadinanza, non come una eventualità affidata alla buona volontà dei singoli.

È un quadro appunto preoccupante, che tuttavia sarebbe sbagliato considerare una novità assoluta. Appare infatti molto simile a quell’individualismo che Mounier, Maritain e i “personalisti” denunciavano già negli anni Trenta del Novecento, e che in effetti indebolì dall’interno, culturalmente appunto, le fragili democrazie di allora. L’individualismo, finché ci sono buoni dividendi (che tuttavia il più delle volte sono a spese degli invisibili, di altri popoli, di altri luoghi), cresce inosservato, ma scava nella mentalità e corrode una risorsa essenziale: la disponibilità a faticare per altri. Senza questa risorsa, nei momenti prolungati di difficoltà, si è più fortemente tentati dalle promesse di soluzioni facili, di scorciatoie, di deleghe in bianco a chi annuncia di sapere come risolvere in poche mosse situazioni complesse, purché gli o le venga dato più ampio potere di agire.

Al calo della partecipazione, intesa come impegno «con e per altri, all’interno di istituzioni giuste»1 , tende dunque a unirsi oggi in modo conseguente la crisi della democrazia, intesa come forma di discussione e di indirizzo dell’azione pubblica: più i nodi socio-politici vengono al pettine, più cresce l’urgenza di mettervi mano; più cresce l’urgenza, più la democrazia appare lenta e inconcludente, e la tentazione di superarla con nuove forme di concentrazione del potere prende piede.

Di questi scenari si discute da tempo: la coscienza critica, si potrebbe dire, non manca. Quel che può essere utile è forse interrogarsi ulteriormente su cosa possa abbassare le difese dei cittadini rispetto alle spinte involutive a cui una democrazia è sempre esposta. Ciascuno è opportuno che lo faccia guardando alle proprie prassi, alle proprie abitudini, e questo vale anche per il “mondo cattolico”. Che cosa abbassa dunque le difese dei cattolici? Naturalmente non ci può essere un’unica risposta, né si può generalizzare, ma qualche considerazione la si può fare a partire dalla reiterata denuncia di papa Francesco del fenomeno del “clericalismo”, su cui è tornato non più tardi dello scorso mese di maggio, rivolgendosi all’assemblea dei referenti diocesani del cammino sinodale italiano.

Per papa Bergoglio il clericalismo è una «tentazione molto forte». «Oggi», rifletteva già nel 2016, in occasione dell’Udienza all’Unione Internazionale Superiore Generali del 12 maggio, «più del 60 per cento delle parrocchie – delle diocesi non so, ma solo un po’ meno – non hanno il consiglio per gli affari economici e il consiglio pastorale. Questo cosa vuol dire? Che quella parrocchia e quella diocesi è guidata con uno spirito clericale, soltanto dal prete, che non attua la sinodalità parrocchiale, la sinodalità diocesana». Il clericalismo, aggiungeva, «è un atteggiamento negativo. Ed è complice, perché si fa in due, come il Tango che si balla in due... Cioè: il sacerdote che vuole clericalizzare il laico, la laica, il religioso e la religiosa, il laico che chiede per favore di essere clericalizzato, perché è più comodo».

Lo spunto da sviluppare per la riflessione sulla democrazia viene proprio dalla sottolineatura finale rispetto alla “comodità” del clericalismo. Il papa fotografava una “complicità”, nella mentalità della delega: è più comodo per chi ha la responsabilità del governo procedere su quante più cose possibili senza passare attraverso organismi e discussioni, ma è anche più comodo per chi è “governato” non doversi occupare, non doversi informare, non dover contribuire riflessivamente, ma solo con una buona disponibilità a eseguire.

Il clericalismo denunciato dal papa è questo sottile e comodo accordo di fondo, che può invisibilmente dare forma a qualsiasi comunità, ma più facilmente a una comunità ecclesiale contemporanea: i decisori non disturbano l’intelligenza del popolo, si limitano a fare appello alla disponibilità di forza lavoro, e il popolo preferisce non essere disturbato. «Il popolo sonnecchia», notava del resto Maritain già nel 1951. «Come regola generale, la gente preferisce dormire»2 .

Questa mentalità, va notato, non presuppone individualismo, è pienamente compatibile con grande generosità. Eppure, questa mentalità, al pari dell’individualismo, è lontana da quel che la democrazia richiede: impegno di lettura non superficiale delle situazioni, pazienza nel confronto, elaborazione di idee, di sguardi sul lungo periodo, corresponsabilità nelle decisioni e nel sostenere i loro effetti, sia buoni che meno buoni per le persone.

La mentalità clericale neppure implica cattiva gestione: dove chi governa è molto capace, le cose possono anche funzionare bene, lo insegnava già Platone, la monarchia è il sistema di governo più efficiente ed efficace, se il monarca è buono (per quanto il passo verso la tirannide, verso il peggiore dei governi spesso è molto breve).

Se il clericalismo è allora una patologia delle comunità cristiane, lo è non dal punto di vista dell’impegno morale delle persone, né da quello del buon governo, ma specificamente da quello dell’esercizio della corresponsabilità e della sinodalità. Quanto sia diffuso tra i cattolici italiani è difficile dirlo: sorge però il dubbio che il “parrocchiano clericale” possa essere più di altri abituato a un modello di vita micro-sociale in cui la partecipazione attiva è ridotta al fare e in cui la delega a un decisore per tutte le questioni rilevanti è prassi. Nel riflettere da cattolici sulla partecipazione e sulla democrazia non possiamo evitare di chiederci quanto questa mentalità non si riverberi anche sulla dimensione civile, quanto cioè il clericalismo, lì dove si radica in parrocchia, non renda le persone meno sensibili alle derive antidemocratiche che possono attivarsi a livello socio-politico.

E d’altra parte, analogamente ma in chiave di risorsa, può essere molto utile riflettere proprio su quel che l’esperienza dei cammini sinodali – avviata nella Chiesa cattolica proprio per impulso di papa Francesco – può insegnare sui benefici e sulle buone fatiche del ritrovarsi come comunità operativa e pensante, più unita nel fare insieme, nel riflettere, nell’orientarsi. Perché in fondo, come si comprende da quell’intervento del papa del 2016, la sinodalità è precisamente l’opposto del clericalismo: è la buona pratica che lo svela come comoda tentazione.

Il percorso preparatorio verso la cinquantesima Settimana sociale inviterà i cantieri sinodali a sostare proprio sull’esperienza in sé del costituirsi come cantiere, andando al di là dei temi affrontati, per provare a cogliere che cosa questa pratica di incontro, di ascolto, di discernimento possa offrire anche in prospettiva civile. La Chiesa non è una democrazia, ma proprio perché ha a cuore le persone e il loro sviluppo integrale, spesso anticipa con le sue intuizioni concrete (oltre che con la riflessione della Dottrina Sociale) percorsi a cui anche una comunità politica può guardare con interesse e profitto.

Note

1 L’espressione, come noto, è di P. Ricoeur, in Le Juste (2), Éditions Esprit, Paris 2001; tr. it.: Il Giusto/2, Effatà, Cantalupa (To) 2007, p. 275.

2 E proseguiva con appunti non privi di interesse: «I risvegli sono sempre amari. Fintanto che sono in ballo gli interessi quotidiani di ciascuno, quel che la gente desidererebbe è business as usual, gli affari come al solito: la miseria e l’umiliazione di ogni giorno, come al solito. La gente di cui il popolo è fatta sarebbe contenta di ignorare che essa è il popolo» (J. Maritain, Man and the state, The University of Chicago Press, Chicago 1951; tr. it.: L’uomo e lo stato, Marietti, Genova-Milano 20033, p. 139).