Bella, buona, desiderabile. La seduzione della conoscenza

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Il seguente testo è tratto dall'articolo pubblicato con omonimo titolo sulla rivista Dialoghi 4/2018

Il rapporto tra la dottrina del peccato originale e i testi biblici, cui essa è ispirata, è sottoposto a tutti quei mutamenti, vacillamenti, intuizioni che derivano dalla scienza esegetica ed i suoi sempre nuovi e diversi orizzonti. Come è noto, l’analisi storica dei primi undici capitoli di Genesi ha portato a cogliere le numerose contaminazioni dei suoi motivi con i miti cosmogonici ed antropogonici degli altri popoli del Vicino Oriente antico1 . Dal punto di vista letterario essi sono delle narrazioni mitiche, contengono elementi stereotipi tipici del bacino del Mediterraneo, se pur inseriti e raffinati da un lavoro redazionale intento ad inserire tali racconti in uno schema sapienziale e teologico, tipico del canone biblico. L’apprezzamento del linguaggio mitico di questi racconti è, quindi, cosa recente, poiché difficile nell’epoca patristica, quando la Bibbia veniva accuratamente distinta dal mito, in quanto ritenuta verità rivelata, qualità che i miti avevano via via perduto per diventare favole, invenzioni umane e blasfeme.
 
[…] La critica esegetica considera i capitoli 1-11 del libro di Genesi come aggiunti in epoca più recente sia ai testi patriarcali (cfr. Gen 12-50), sia ai libri che vanno da Esodo a Deuteronomio e li classifica come testi sapienziali post-esilici3 . Una datazione che consente di ipotizzare delle contaminazioni significative tra i mondi culturali in cui la Bibbia venne a formarsi. La sapienza egiziana, babilonese, greca influenzò quella biblica con i suoi simboli ed i suoi miti. L’elemento antropogonico della ribellione di creature congiunte alle divinità che, dapprima, vivono nell’ambiente celeste e poi perdono lo “statuto” divino, è presente in molti e noti miti del mondo antico. In Genesi esso serve a spiegare come mai la creatura umana sia mortale e, similmente ad essa, tutti gli altri esseri viventi. «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni» (Gen 6,3), stabilirà Dio per i figli di adam, dopo aver sbarrato loro l’accesso all’albero della vita, custodito dai cherubini dalla spada fiammeggiante (cfr. Gen 3,24). Il racconto, pertanto, è adibito, da una parte, a narrare l’origine della morte; dall’altra ad indicare delle possibili vie d’uscita dalla stessa. Porre una trama di parole sulla distanza che l’adam vive tra il suo “brevetto” di vita e la sua concreta condizione di morte, segna l’inizio della storia umana e, quindi, anche quello della tensione dell’umanità verso la ri-conquista dell’immortalità. […] Nel racconto di Genesi il consorzio della donna col serpente appare motivato, tuttavia, dal desiderio della conoscenza. La donna è attratta dal frutto di quell’albero, perché esso appare «buono da mangiare, bello alla vista e seducente per avere la saggezza» (Gen 3,6a). Quest’ultima viene, pertanto, introdotta come l’oggetto principale del desiderio umano e ciò che costituisce la sua più grande ambizione. E due sono gli elementi più interessanti: il primo è che la conoscenza – e non la forza, la virtù eroica, la guerra – sia ravvisata come il “potere” più grande dell’umano; il secondo, che sia la donna ad esprimere ciò. La donna rappresenta la forza della debolezza per la sua sete della sapienza divina, vale a dire originaria, cioè della fonte della vita. Nella Bibbia, infatti, la Sapienza – che verrà personificata in una figura femminile (cfr. Pr 9,1ss) – è la cava e la maestra della vita. Pertanto il desiderio del frutto dell’albero della conoscenza è mediatamente legato alla volontà di conoscere il segreto della vita eterna che combacia con la vita divina.
 
[…] Quello della conoscenza nasce, dunque, come un “potere” tipicamente femminile, a motivo del corpo della donna che è «madre di tutti i viventi» (Gen 3,20). Un potere che oltrepassa, però, i confini del genere e si assimila, nel mito greco, a quello di Odisseo, impegnato a Troia accanto ad Achille. Dei due il più forte e il vincitore non sarà l’eroe della battaglia – Achille – ma Odisseo che, con la sua astuzia e con la sua capacità tecnica, costruirà il cavallo da cui uscirà il fuoco divoratore di Ilio. Col racconto della fruizione del frutto dell’albero, che è in mezzo al giardino, il testo biblico riconosce all’umano il vero potere divino: quello della conoscenza, appunto. […] Ma se l’umanità ha acquistato la condizione divina per via della conoscenza, ad essa non è stata – ahimè! – consentita la vita: «Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre» (Gen 3,22b). Purtroppo il serpente non aveva detto tutta, ma solo una mezza verità: vero è che l’uomo e la donna possono conoscere, ma non è vero che non morranno affatto (cfr. Gen 3,4b)! Il limite alla vita – e quindi la mortalità – non è, però, la punizione che Dio dà per la trasgressione al suo precetto. La conseguenza di quella consiste, infatti, nella maledizione del suolo ed è rivolta solo al marito: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne”, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba del campo» (Gen 3,17-18). Più che una punizione, si tratta della condizione in cui si verrà a trovare l’uomo rispetto alla terra: questa non gli darà spontaneamente i frutti da mangiare, ma lui dovrà farsi agricoltore e trarli fuori dal suo grembo, con sudore e dolore. Per la donna non c’è punizione, né maledizione, ma la descrizione della sua condizione umana rispetto alle gravidanze ed al rapporto – ormai ferito – col marito. Lo stato ideale dell’Eden è certamente perduto ma, partendo da questa condizione dolorosa, difficile e dura dell’umanità sulla Terra, la prima risorsa di quest’ultima sarà proprio la conoscenza! Sarà essa a permetterle di emanciparsi dalla maledizione del suolo ed a cavare cibo dallo stesso; l’umanità imparerà a lavorare il legno e la pietra, a fabbricare navi per sfuggire alle tempeste, a costruire città dove, insieme, si potrà trovare salvezza, ricchezza e sviluppo. Tutto ciò – che si potrebbe anche chiamare “progresso” – avrà sempre un rovescio della medaglia: e ciò è quanto è descritto come una punizione divina. Del resto anche Odisseo fu punito per la sua conoscenza e la sua astuzia, condannato a restare per vent’anni lontano da casa. Ma ciò è semplicemente il prezzo che l’uomo deve pagare per ogni sua irrinunciabile conquista, per ogni passo della sua storia. La donna di Genesi non viene punita per aver trasgredito il divieto; al contrario viene punito – con la maledizione – il serpente che l’ha ingannata; a lei Dio annuncia un futuro di riscatto e di vittoria: la sua sapienza «schiaccerà la testa» a quella, ingannatrice e monca, del serpente: «Io porrò inimicizia tra te e la donna; tra la sua stirpe e la tua stirpe; questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Gen 3,15b).
 
Il “peccato originale” non sta, dunque, nell’ambizione di conoscere, da parte dell’umano, ma nel modo in cui questi mette in atto la sua conoscenza. Quando separa il cammino della conoscenza dallo scopo che le è proprio che, come è stato detto, consiste nella vita piena, libera e di comunione, questo è, allora, un’usurpazione, un inganno. Quando la conoscenza ha come scopo l’interesse dell’uno contro la persona dell’altro, questo è un delitto e un’ingiustizia. Il primo esempio di peccato originale per così dire “applicato” è, infatti, il fratricidio, non per nulla raccontato nella storia di Caino e Abele, che è la prima pagina della vita umana fuori dall’Eden. Vale a dire – nel linguaggio del mito – quella dove ancor ora ci troviamo e che – nella fede cristiana – verrà riconciliata dal Corpo del Signore che muore sulla Croce. Caino uccide Abele perché rifiuta e distrugge il primo grande limite che è costituito da una creatura come te: l’altro. Porsi in relazione e condividere spazio e tempo con lui è il teatro della conoscenza umana (e dell’amore!). L’altro permette che l’uno costituisca il versante che lo rende stabile e lo trascende; il suo sostegno, il suo confine, la sua libertà. Con ciò possiamo far luce sul peccato originale dell’Eden: anch’esso si manifestò, infatti, come una separazione, quella dell’uomo dalla donna, nella frattura del patto e della parola tra loro; fu l’abbattimento di quel confine che permetteva a ciascuno di trovare la propria identità dinanzi alla diversità e al mistero dell’altro. 
[…] Il peccato originale fu quello di desertificare lo spazio dell’altro e, quindi anche quello di Dio. «Adamo dove sei?» dovette domandare il Creatore, ritrovandosi solo della sua creatura (Gen 3,9). Ma anche la creatura si ritrovò, di nuovo, imperfetta, smarrita, com’era prima che fosse posta di fronte a lui la donna; una condizione che Dio aveva definito: «Non è bene» (Gen 2,18). Ed ecco, allora, l’entrata del male nelle fibre dell’umanità: l’estraneità dell’uno all’altro fa perdere la condizione di bene e cadere in ciò che, per contrasto, si dovrà chiamare “male”.