Cosa ha ancora da dirci il sacrificio di Jan Palach

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La vigilia di questo 25 aprile, Festa della Liberazione, è stata caratterizzata da alcune polemiche tra forze politiche. Non un fenomeno nuovo nel nostro Paese, in cui si sconta qualche difficoltà a trovare una memoria davvero condivisa su una data – quella in cui si festeggia la vittoria sul nazifascismo  ̶  che dovrebbe rappresentare patrimonio comune per quanti si professano democratici. In particolare, ha suscitato qualche perplessità, la scelta dell’attuale Presidente del Senato, Ignazio La Russa, del partito Fratelli d’Italia, di omaggiare proprio il 25 aprile la memoria di Jan Palach, lo studente cecoslovacco che si suicidò nel 1969 per protestare contro il totalitarismo sovietico. Una decisione da qualcuno ritenuta strumentale. L’episodio, comunque, ci dà l’occasione di tornare per un momento proprio a Jan Palach e provare una riflessione politica a partire da quell’evento storico.

Jan Palach nacque l’11 agosto 1948  e morì a Praga, 19 gennaio 1969, dandosi fuoco per protesta contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, invasione che, iniziata il 5 gennaio 1968, soffocò con la forza delle armi, il tentativo di creare in quel Paese uno Stato che, senza rinnegare le conquiste sociali fino ad allora realizzate (pur non senza difficoltà e momenti di grave crisi economica), le integrasse con i diritti di libertà civile e politica, fino ad allora negate dal dominio che l’Unione Sovietica esercitava sui paesi sotto il controllo dell’URSS (il cosiddetto “blocco sovietico”, crollato con la caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989). Quel tentativo è noto ancora oggi come “Primavera di Praga” e fu guidato dall’allora segretario del partito Alexander Dubcek.

Fino ad oggi resta l’unico tentativo di coniugare, in un sistema democratico avanzato, uguaglianza sociale, efficienza economica e libertà. Questo “socialismo dal volto umano” attualmente resiste solo nel ricordo di quell’esperienza, mentre il mondo è ormai schiacciato sotto il controllo della finanza internazionale, dei grandi monopoli economici, del consumismo e dello sfruttamento dei popoli più poveri della Terra. Giovanni Paolo II ricordò nella sua Enciclica Centesimus Annus (1 maggio 1991) che “è inaccettabile l’affermazione che la sconfitta del cosiddetto ‘socialismo reale’ lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica”.

Prendere sul serio questa fondamentale idea è il compito che attende, nei prossimi anni, credenti e non credenti uniti nella fiducia della dignità di tutti gli esseri umani e della fratellanza tra il genere umano e il mondo della natura. L’obiettivo? Una società che, recuperando i fondamenti della democrazia, li affidi, per la loro tutela e sviluppo, non alle leggi anonime del mercato, ma a un intervento pubblico in grado di stabilirne i limiti e di creare, con l’aiuto del privato-sociale, uguaglianza effettiva e solidarietà come ingrediente essenziale della giustizia e dei diritti.