Desideri senza felicità, felicità senza desidero

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Il testo che segue è tratto da un articolo dal titolo omonimo, apparso sul numero 3/2017 della rivista “Dialoghi”

L’adolescenza è la terra natia del desiderio. È ai suoi fasti e ai suoi auspici che ritornano l’adulto o il vecchio nei momenti in cui la vita non cessa di esporli alle sue incognite o alle vertigini dell’inatteso, quando si tratta di misurare la tenuta del proprio desiderio. Il desiderio conosce stagioni diverse, ognuna con la sua tavolozza di colori e sfumature, ma indubbiamente la giovinezza presenta a questo riguardo un’incomparabile intensità di gradazioni. L’infanzia stessa è un’invenzione dell’adolescente e rappresenta, in relazione al tema del desiderio, un tempo per certi versi preliminare e ricostruibile solo in retroazione. Troppo imponente appare infatti, nel suo caso, il peso del desiderio degli adulti rispetto alle reali risorse e alle possibilità di autodeterminazione del piccolo vivente che patisce la propria condizione di prematurazione e necessita quindi di una lunga e complessa fase di addestramento per arrivare a cavarsela da sé: nutrirsi e curarsi autonomamente, camminare, parlare la sua lingua.
[…] Ma cos’è il desiderio, e cosa lo causa? Questione delle più complesse ma, se possiamo dire che l’adolescenza è la sua patria, è perché quest’epoca della vita ci permette di vedere a occhio nudo la distanza che separa il desiderio dalla semplice concupiscenza, dalla brama di possesso di un certo bene, animato o meno. Cosa che ci permette di coglierne al meglio l’aspetto propulsivo che lo sorregge nonché il potere che esercita, appunto, non tanto su un determinato oggetto, quanto sul soggetto stesso e sulla qualità del suo rapporto col mondo. In altre parole, il desiderio non segue una logica “consumistica” e la sua non si configura mai come un’esperienza conclusa in se stessa. Anche il godimento che si può ricavare dal suo esercizio è l’effetto dell’esposizione a un divenire infinito, una promessa di vita che non si compie e non si giustifica se non nel suo stesso farsi. Il sentimento di pienezza che attraversa il soggetto non cortocircuita sul suo io, che al contrario ne è colto di sorpresa, perfino travolto. Per ciascuno di noi, parlare del “mio desiderio” è a ben vedere sempre un azzardo, un’affermazione con un non so che di straniante. Da dove viene, infatti, il mio desiderio e a cosa mi induce, mi spinge o addirittura mi forza? È la prova evidente di come ciò che di più intimo alberga in noi trattiene in sé un punto di inaggirabile alterità.
Come si vede, il desiderio vive non solo di un congenito stato d’indigenza cui si sforzerebbe di porre rimedio (se bastassi a me stesso, cosa mi resterebbe da cercare al di là di me?), ma di una mancanza riferibile a un fattore interno e intimamente connesso alla persona stessa, dell’incognita che alberga al cuore del suo essere. Tutto ciò fa del desiderio un’esperienza tanto gratificante quanto problematica, legata com’è, di fondo, a una condizione esistenziale insanabile, a quella felice lacerazione che ci porta a cercare noi stessi, il nostro stesso mistero, in un altrove, un al di là di sé, nell’Altro. C’è, come si vede, un dato costitutivo, non contingente, che, lungi dall’essere un handicap, rappresenta in realtà il fattore propulsivo, il detonatore del tutto: la mancanza che il soggetto scopre in sé e, inevitabilmente, nell’altro, al cuore di tutto ciò che vive. Qualcosa che non chiede di essere guarito, ma custodito.

[…] Tornando alla vicenda adolescenziale, non possiamo nasconderci il fatto che la consapevolezza del proprio stato di mancanza, accompagnata a una certa impotenza dell’io a far quadrare i conti della propria identità, compromette il quieto vivere di entrambi i sessi: corpi che mostrano i segni di un’incipiente e inattesa trasformazione, dove i tratti peculiari della virilità e della femminilità fanno sì che essi parlino lingue diverse per quanto entrambe estranee all’idioma d’origine, la lingua dell’infanzia. C’è in sostanza un certo dazio da pagare nell’assunzione del proprio sesso, un gradiente di estraneità – quasi di intrusività – che cambia radicalmente il vissuto del corpo; un corpo col quale, solo poco prima, si era in un rapporto di naturalità e familiarità, quasi si trattasse di un mezzo di trasporto o di una macchina funzionale alla sopravvivenza. […] Come accettare, allora, il peso del proprio destino umano? O più esattamente, come farlo proprio e in sostanza avvolgerlo – per dirla con Freud – col «filo del desiderio»? Attenzione, quando si parla di desiderio non ci si riferisce solo alla spinta vitale, all’eros, al trasporto affettivo. Il giovane non è più il bambino che deve pararsi dal desiderio dell’adulto per sopravvivere ad esso, si ritrova adesso ad avere in sé forze e capacità tali da divenire reattivo, propositivo, contrattuale. E indubbiamente, mai come nell’adolescenza, il desiderio mostra una delle caratteristiche che gli sono peculiari, la sua dissidenza di fondo.
[…] Questo fa sì che il passaggio intergenerazionale non abbia nulla di “politicamente corretto”: non esiste la possibilità di una negoziazione civile, indolore, tra padri e figli, ma solo, necessariamente, malinteso, incomprensione, conflitto. Sarà in sostanza nell’attraversamento del conflitto – tra i propri moti pulsionali e la pervicace idealità da cui è comunque animato, tra sé e gli altri, la società – che il giovane avrà modo di addestrare il proprio desiderio. Ma, stando all’adolescenza, la natura acrobatica, paradossale, del desiderio è dimostrata da un altro fatto, decisivo. Infatti, al suo tratto pungente, pugnace, caparbio, non manca allo stesso tempo un punto di apertura prospettica. Una soglia in direzione del mondo. L’adolescente non è solo chi, come diceva Winnicott, «lotta per sentirsi reale», è anche chi spera. […] Un desiderio “felice” si nutre della speranza. Di ciò che non è visibile o non è ancora qui, ma a cui si dà credito e a cui ci si vota nella convinzione che il nostro stesso essere è più un divenire che un perdurare fine a se stesso. In caso contrario il desiderio collassa nel misconoscimento della sua reale natura. È quello che succede quando il suo orizzonte e il suo raggio d’azione, la sua ragione ultima, restano confinati in un compulsivo e degradante consumo dei beni o nella realizzazione di un obiettivo di puro prestigio narcisistico. In entrambi i casi si tratta di un cortocircuito che imprigiona l’esperienza all’interno di un rapporto sostanzialmente autoreferenziale e cinico con il mondo, gli oggetti, gli altri, noi stessi. Ci si può illudere di essere felici avendo a disposizione tutto ciò che pensiamo necessitarci, ma sappiamo bene che l’effetto collaterale di cotanta pienezza e autosufficienza, quando non è la congestione, è la noia, l’abulia, l’indifferenza: una felicità senza desiderio, priva cioè della visione di un altrove.

[…] Come crescere, allora, nel mondo del «life is now», della felicità senza desideri, dove per definizione la speranza non ha diritto di cittadinanza? Non è forse in questa realtà, che si vorrebbe senza conflitti o punti di dissidenza, senza traumi, che le famiglie d’oggi si adoperano a far germogliare i loro figli, come si trattasse di tanti bei prodotti floreali da tenere amorevolmente al riparo dalle tempeste della vita? […] Se pensiamo che ci si mette anche la crisi economica a rallentare sensibilmente, fino a renderla illusoria e aleatoria, l’aspettativa di emancipazione delle giovani generazioni, allora più che soffermarci su una specifica clinica giovanile e a sfornare diagnosi capaci di incasellare ogni tipo di condotta o devianza, dovremmo pensare se non sia più corretto ragionare nei termini di una clinica dell’intergenerazionalità. O, perlomeno, chiederci se le patologie dell’infanzia e adolescenziali siano non solo una risposta ai fantasmi genitoriali, ma anche una cassa di risonanza dei tratti più controversi e problematici del discorso che regge la società neocapitalista, un discorso in cui l’imperativo del godimento tende a soppiantare lo spazio creativo e dinamico del desiderio e della speranza.