Il tempo della tecnica e l’eclissi della politica

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Quando le culture politiche vanno in crisi, le tre alternative che storicamente subentrano sono, il più delle volte: 1) le politiche cosiddette “realistiche”, per le quali contano solo i “fatti” e i risultati che si possono dedurre da essi con gli strumenti che fornisce la previsione delle scienze sociali; oppure 2) il dominio dei “tecnici”, i quali, dopo aver delegittimato la politica tradizionale, ne prendono il posto. Le due opzioni in effetti sono alternative fino a un certo punto, dato che convergono su un aspetto cruciale: l’accusa alla politica di perdersi in ideali astratti e irrealizzabili (l’accusa preminente dei realisti) e/o di mancare del rigore, della certezza, della coerenza che unicamente la scienza e la tecnica consentono di ottenere (l’accusa dei tecnocrati); 3) il populismo, del quale qui non parlerò.
Le prime due alternative hanno dominato, anche in Italia, almeno negli ultimi trent’anni, approssimativamente. Il risultato è stato di far ascendere al governo della società uomini e partiti che hanno speculato, specie dopo il crollo del comunismo, su quella che hanno definito la “crisi delle ideologie”. Ma hanno dimenticato o finto di dimenticare che le ideologie sono una cosa, le culture politiche un’altra ben diversa. Le prime sono dogmatiche e servono soprattutto come fonti di legittimazione del potere, sia per conquistarlo sia per mantenerlo: nazismo e comunismo forniscono due esempi significativi. Le culture politiche, invece, sono il frutto di elaborazioni teoriche che si sono sviluppate nel tempo e il cui scopo è di fornire senso e fini all’attività politica, in modo che questa non si abbassi a mera gestione dell’esistente e possa conservare sempre come obiettivo primario la dimensione spirituale e valoriale della politica. Inoltre non sono dogmatiche e accettano volentieri il pluralismo delle idee e delle opinioni.
Gettiamo un pur rapido sguardo all’indietro, nel tempo, e intorno, nella società in cui viviamo oggi: è evidente che hanno conquistato un’indiscussa egemonia le due forme di anti-politica che ho ricordato all’inizio. Pensiamo ai grandi problemi del nostro Paese: la scuola, la sanità, l’amministrazione, il lavoro e l’impresa, il mondo della cultura. Le parole d’ordine sono diventate l’efficienza, l’assunzione del mercato come regolatore fondamentale dell’attività economica, la supremazia della finanza, la necessità di reagire alle presunte storture dello Stato sociale, la priorità del profitto sul lavoro, la convinzione che l’istruzione, a partire dalle scuole dell’infanzia sino all’Università, coincida con l’apprendimento delle metodologie delle scienze e abbia ben poco a che fare con i contenuti e la sostanza di quello che con una buona dose di disprezzo cominciò ad essere definito e propagandato come l’“idealismo” e il pressapochismo dei politici perditempo. Per gli anni dal dopoguerra - circa il periodo che comprende ’50 e ’70 - questa critica era e resta infondata e non in grado di render conto del progresso culturale e materiale che aveva realizzato l’Italia in quegli anni.
Poco si può spiegare di quanto accade oggi se non si tiene conto di questi presupposti: tecnocrazia e priorità del profitto e del successo dominano il quadro attuale. Lo dimostrano le scelte operate per far fronte alla pandemia e, in un campo diverso, lo documentano le decisioni che si profilano per il mondo del lavoro, per esempio con i progetti relativi alla gestione dei licenziamenti dopo l’emergenza Covid. In entrambi i casi, pur nella differenza degli ambiti da considerare, il ritorno alla “normalità” significa innanzitutto ristabilire le condizioni del profitto, riaprire attività tanto redditizie quanto rischiose a pandemia tutt’altro che vinta, riattivare abitudini cui i cittadini dicono di non essere più disposti a rinunciare, difendere i privilegi di chi sta meglio. Chiuso il periodo acuto del dramma, la società opulenta rivendica il  primato della sua logica e dei suoi fini, che si sono potuti affermare anche per responsabilità del mondo della scuola e delle famiglie (al centro di un attacco senza precedenti); in entrambi i casi è stato abbandonato il compito della formazione morale e civile dei futuri cittadini, sui quali fanno maggiore presa, almeno il più delle volte, le banalità dei social che la responsabilità per i valori intorno a cui si intesse il bene comune.