Migrazioni e migranti, una questione di sguardo

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La prima volta che in Italia, tradizionale terra di partenza, il numero degli immigrati ha superato quello degli emigrati risale alla metà degli anni Settanta, quando, per effetto della chiusura dei confini delle principali potenze industriali europee, i flussi provenienti dall’Africa settentrionale riadattarono la propria traiettoria optando per il nostro Paese, che fino a quel momento aveva rappresentato una seconda scelta. Sono, quindi, ormai quasi cinquant’anni che l’”Italia non è più solo degli Italiani”.
Gli anni Ottanta e Novanta hanno consolidato, infatti, i tratti di uno scenario migratorio sempre più in linea con quello che si configurava già da tempo negli altri Paesi europei, ovvero un bacino nel quale la deindustrializzazione e il progressivo abbandono da parte delle nuove generazioni di alcune attività produttive – su tutte, quelle agricole e quelle edili – da un lato, l’invecchiamento demografico e la crescente domanda di assistenza domestica dall’altro, hanno reso il mercato del lavoro italiano molto attrattivo per i lavoratori e le lavoratrici migranti, provenienti, al contrario, da Paesi in affanno per la crescita demografica e, in quegli anni, liberati dal giogo sovietico.
È così che l’immigrazione è diventata, rafforzandosi ulteriormente negli anni Duemila, una componente strutturale nell’economia italiana, come dimostrano non solo la pluralità di gruppi etnici presenti sul territorio nazionale (quasi duecento) ma anche alcuni dati particolarmente significativi per interpretarne il contributo socio-economico: basti pensare che negli ultimi anni, secondo i dati Unioncamere, le imprese di titolari migranti crescono in media del 4% ogni anno, a fronte di un dato in contrazione per quanto concerne quelle a titolarità italiana. Un altro dato da tenere in considerazione per ponderare correttamente la portata della presenza straniera in Italia è quello relativo, ad esempio, al numero di studenti di cittadinanza non italiana nelle scuole: il dato MIUR lo registra superiore al 10%, là dove oltre il 60% di questi allievi si classifica come straniero pur essendo nato in Italia.
A fronte, dunque, di una popolazione non italiana ma residente in Italia che supera i cinque milioni di persone (dato ISTAT del 2021), pari a quasi il 9% della popolazione totale, a fronte di un’ordinarietà di vite scandita dall’istruzione, dal lavoro e da solide relazioni sociali,  è lecito oggi, a cinquant’anni dalla prima immigrazione nel nostro Paese, chiedersi se le urgenze da sottoporre all’agenda politica nazionale e al dibattito pubblico siano proprio quelle riportate alla ribalta solo poche settimane fa, con l’ennesima vicenda dello sbarco negato alle navi delle ONG, oppure piuttosto quelle relative, ad esempio, all’inadeguatezza della normativa per l’acquisizione della cittadinanza italiana e ai diritti civili, politici e sociali dei lavoratori impiegati già da anni nell’economia del nostro Paese.
Tutto sta nel come si guardano i fenomeni migratori e i migranti: chi sono per noi? Sono innanzitutto stranieri o innanzitutto persone? Sono poveri in fuga o aspiranti lavoratori? Sono regolari/irregolari/clandestini o padri/madri/bambini in cerca di una vita migliore? E il compito di permettere all’opinione pubblica di guardare al fenomeno con le lenti giuste appartiene innanzitutto alla politica, responsabile delle scelte e del nostro futuro. È la classe dirigente che deve indicare l’orizzonte e seguire la rotta che ad esso conduce.
Il tempo che stiamo vivendo sarebbe maturo per permettere alla nostra democrazia di compiere un salto di qualità verso il riconoscimento di nuovi diritti a “vecchi” cittadini, verso la condivisione degli spazi sociali e culturali, verso una nuova educazione della comunità nazionale ai doveri della solidarietà e dell’accoglienza. E invece, purtroppo, siamo ancora nel pantano dei braccio di ferro istituzionalizzati come pratica di governo, assistiamo alla riproposizione di misure di intervento e a dibattiti politici che narrano scenari non verosimili: l’immigrazione in Italia, infatti, non è quella dei duecento profughi bloccati sulla nave - peraltro guardati come il simbolo di una minaccia da contenere, spersonalizzati dalla propria intima vicenda umana – ma è quella degli oltre cinque milioni di lavoratori e lavoratrici, imprenditori e imprenditrici, studenti e studentesse, bambini e bambine per i quali l’Italia è casa, progetto e futuro. È a loro che la politica deve dedicarsi per costruire una comunità nella quale l’inclusione non sia più una sfida o una fatica, ma una solida realtà.