Vincenzo Verrastro. Politico e cristiano tra il tempo e l’eterno

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Il contributo tratteggia la vicenda umana e politica di Vincenzo Verrastro (1919-2004), primo presidente della Regione Basilicata, attingendo ai suoi scritti, alle sue memorie e al diario personale pubblicato dalla figlia. Ne emerge la figura di un uomo che mai cessò di cercare le vie  di Dio nel suo infaticabile e generoso impegno politico.

Del tempo e dell’eterno: così volli intitolare, anni fa, la pubblicazione di alcuni brani del diario di mio padre, nel tentativo di cogliere il tratto distintivo della sua vita, protesa tra l’impegno politico nella città degli uomini e l’anelito costante alla città di Dio. Era nato il 6 maggio 1919  in Avigliano, provincia di Potenza, da una famiglia di imprenditori agricoli. Sin dalla giovane età maturò una formazione cristiana profonda che lo tenne lontano dalla propaganda fascista. Nominato presidente della Giac parrocchiale, cominciò a organizzare gli incontri formativi.  Questa prima esperienza fu per lui una grande palestra di spiritualità, di cultura e di governo di una comunità giovanile: «La responsabilità dell’associazione mi maturava sempre di più, non solo sotto l’aspetto organizzativo, ma anche sotto quello morale. Nell’Ac formavo gli altri,  ma formavo ancora di più me stesso».

Diplomatosi al liceo classico di Potenza, si iscrisse a Napoli alla Facoltà di Lettere e iniziò a frequentare la Fuci. La sua intensa vita spirituale si univa a una forte sensibilità per i problemi sociali. Fondò ad Avigliano una Conferenza di San Vincenzo de’ Paoli per «portare  assistenza ai poveri, particolarmente a quelli più abbandonati»: era convinto che il contatto diretto con la sofferenza potesse affinare la sensibilità cristiana dei giovani.

Strinse rapporti di amicizia con alcuni confinati politici ad Avigliano, come l’economista Manlio Rossi-Doria e lo storico Franco Venturi: fra gli aiuti che prestò, custodì in un deposito della sua casa libri e appunti di Rossi-Doria, per evitarne il sequestro da parte dei carabinieri: «La  nostra solidarietà – scrisse – era considerata da alcuni anche come temerarietà».

Nel 1943 il vescovo di Potenza Augusto Bertazzoni gli affidò la presidenza diocesana della Gioventù maschile; dal 1952 al 1958 fu presidente della Giunta diocesana.

Laureatosi nel 1944, divenne professore ordinario di Italiano e Storia presso l’istituto tecnico commerciale di Potenza e nel 1949 ne divenne il preside. Si sposò con la coetanea Maria Rosaria Labella, vivace attivista della Gioventù femminile. Intensi furono gli anni spesi nella  scuola, alla quale dedicò «tutto se stesso».

Alla caduta del fascismo, gli amici dell’Ac premevano affinché accettasse qualche responsabilità politica in rappresentanza del mondo cattolico. Dapprima restìo, dovette cedere alle insistenze, imboccando un percorso, quello della politica, che non aveva messo in conto nella  sua vita. Nel febbraio del 1945 fondò in Avigliano, insieme ad alcuni amici, una sezione della Dc. Nel 1952 fu eletto consigliere provinciale di Potenza e consigliere comunale di Avigliano.

Iniziò il suo impegno politico nelle zone più povere dei comuni del suo collegio, quelle rurali, puntando alla risoluzione dei problemi più urgenti, come quelli della terra, dell’occupazione, della casa, delle opere di civilizzazione. Poco alla volta, grazie anche all’intelligente  coinvolgimento dei vari enti operanti sul territorio, si riuscì a porre rimedio a diverse situazioni di disagio: molte campagne furono dotate di fontanili, di strade, di illuminazione elettrica, di abitazioni dignitose, di scuole, di ambulatori medici. Con quei contadini nacquero duraturi  rapporti di amicizia: «Io mi guardai sempre bene dal voler strumentalizzare quella gente per miei fini politici che non avessero, alla radice, una finalità esclusiva in loro favore. Fu proprio questa impostazione rispettosa dei contadini e della loro personalità umana che mi consentì  una collaborazione onesta e fruttuosa».

Nel 1958 fu eletto presidente della Provincia di Potenza e nello stesso anno divenne segretario provinciale della Dc. Nel 1968 fu eletto senatore della Repubblica.

Ma un nuovo evento imprevisto, nella primavera del 1970, intervenne a modificare il corso della sua vita. Si stavano avvicinando le prime elezioni regionali: il delicato momento storico era vissuto in Basilicata con speranza, ma anche con un certo timore per la condizione di un  territorio in forte ritardo di sviluppo. La Dc lucana ritenne allora opportuno proporre al timone del nascente ente regionale proprio lui, uomo di sicura esperienza. La proposta lo disorientò: nella sua accettazione molto peso ebbe il parere di mons. Bertazzoni, che in quell’evento  scorse un segno della volontà di Dio. La scelta di abbandonare il seggio del Senato gli costò non piccolo sacrificio: il respiro più ampio che aveva sperimentato nell’aula del Senato gli sarebbe sempre mancato, ma mai arrivò a intaccare la certezza di aver fatto la cosa giusta.

In Basilicata – scrisse – ho avuto occasione di operare, di esprimere una mia visione della vita e di potermi dedicare al mio prossimo, sia pure attraverso un servizio civile, con un impegno diretto che in altre collocazioni non mi sarebbe stato possibile». Il 14 ottobre 1970 fu  eletto presidente della Giunta regionale: fu confermato nell’incarico nel 1975 e nel 1980. Uno dei suoi ultimi faticosi impegni fu la gestione dell’emergenza causata dal sisma del novembre 1980. Si spese molto per l’inserimento, nella legge sulla ricostruzione, degli articoli che  istituivano l’Università di Basilicata: la nuova istituzione doveva essere il segno della decisa volontà di rinascere dalle rovine del terremoto.

Nonostante i numerosi impegni, coltivò sempre i suoi originari interessi culturali e nel 1972 divenne presidente della Deputazione di storia patria per la Lucania.

Presentate le dimissioni volontarie dalla carica regionale nel 1982, fu designato presidente dell’Istituto di mediocredito della Basilicata. Si spense il 9 agosto 2004. 

La fede e la spiritualità

Di un profondo senso religioso della vita sono impregnate le pagine del diario di mio padre.

La ricerca di Dio lo accompagnava in tutti i momenti della sua giornata: quando si recava in chiesa, ma anche quando era immerso nelle mille occupazioni connesse alla sua carica. Avvertiva l’esigenza di vivere continuamente alla presenza di Dio, di far «entrare Dio» nelle cose  di ogni giorno: il «lavoro senza Dio» gli risultava arido, «privo di ogni luce, scarico di ogni piacere». Vuote gli sembravano le giornate consumate interamente in una prassi meccanica, in un modo di lavorare nervoso e convulso, nel quale il sacrificio perdeva di vista «una  finalizzazione valida a fini superiori». Dispersivo diventava il suo lavoro quando l’azione aveva il sopravvento sulla riflessione e sull’ascolto: gli pareva che in esso ci fosse molto della parte di Marta ma «poco o niente di quella di Maria».

Leggendo sant’Agostino, Pascal, Maritain e De Gasperi, rimaneva colpito dall’elevatezza della loro vita spirituale e si sentiva ancor più spinto a uno sforzo di imitazione, a superare qualsiasi tiepidezza: «Stare a metà strada – scriveva – è sempre un errore.

Specialmente nelle conquiste spirituali». Per sfuggire all’aridità, difendeva i suoi momenti di preghiera dall’invadenza di un impegno totalizzante, leggeva i Vangeli e scritti di spiritualità; frequentava il gruppo locale del Meic, partecipava a convegni e ritiri. La partecipazione alla  messa domenicale era per lui un impegno irrinunciabile: nella partecipazione alla liturgia comunitaria cercava la via per una più forte unione con Dio e con i fratelli.

L’impegno politico come servizio per il bene comune

In molte pagine del diario mio padre sottolinea che l’azione politica doveva mirare a realizzare il bene comune, indipendentemente dalle ambizioni delle persone. Su questo piano si trovò a sostenere le lotte più aspre con chi, dentro e fuori del suo partito, preferendo gli interessi personali, finiva con lo svilire la dignità della politica e delle istituzioni: «La politica non è mero gioco di potere per i senza scrupoli e gli spregiudicati, non è sopraffazione ma servizio; non improvvisazione ma azione consapevole e meditata».
Aveva chiaro in mente che il bene comune poteva essere raggiunto solo promuovendo la giustizia sociale, lottando contro i privilegi, sostenendo le classi più disagiate. Le letture assidue degli scritti di Alcide De Gasperi e di storici cattolici gli suscitavano una profonda riflessione su questi temi e l’amara considerazione su quello che rischiava di diventare, per il suo partito, un inglorioso tramonto: «Quanto poco c’è nella Dc attuale della grande animazione degasperiana. Il frazionismo, le ambizioni smoderate, l’esercizio irriguardoso del potere, spesso la  totale assenza di spiritualità sono gli aspetti deteriori di un partito cui è venuta meno via via la carica ideale di De Gasperi». L’amara constatazione di quella che era diventata la politica gli faceva dubitare, talora, che il suo impegno fosse ancora gradito a Dio. Il suo disagio si  trasformava allora in preghiera accorata, in richiesta di luce dall’Alto.

Il grido dei poveri

Mio padre sapeva bene che sul neonato istituto regionale si sarebbero riversati «tutto il carico di secolari attese del popolo, tutta l’esasperazione di mali inveterati nella società regionale: disoccupazione, basso reddito, emigrazione». Sul problema della disoccupazione giovanile concentrò le sue migliori energie in iniziative che gli comportarono non poca fatica. Ma i tempi erano difficili e sulla possibilità di una completa risoluzione del problema non si faceva illusioni. A impensierirlo, sul piano umano, era «il dramma reale di tante persone e famiglie» che, nella mancanza del lavoro, avrebbero trovato «la causa prima di mali morali e materiali».

Il giovedì, giorno della settimana in cui riceveva senza filtri qualsiasi cittadino che avesse voluto parlargli, era per lui la giornata più difficile. Il dover far comprendere a padri disperati l’impossibilità di compiere un intervento risolutore per la sistemazione lavorativa loro o dei loro figli lo turbava. Un giorno che alcuni di essi scoppiarono in pianto dinanzi a lui, scriveva commosso: «Vorrei spezzare il mio cuore per aiutarli!»

Il valore della testimonianza personale

Per la difesa dei valori in cui credeva, mio padre annetté sempre grande importanza alla testimonianza personale. «Il cattivo esempio di chi sta in una certa posizione sociale – scriveva – è molto più significativo e dannoso di quello dei comuni cittadini». Per questo motivo procurò di non trarre profitto dalle molte occasioni di arricchimento, pure non illecite, nelle quali, a motivo della sua collocazione politica, si imbatté spesso.

In ciò fu aiutato, invero, da una sua naturale propensione a una vita sobria: il contatto con la ricchezza, anziché allettarlo, suscitava in lui una sensazione di disagio.

La tragedia del rapimento di Moro lo spinse a esaminare la possibilità di spingere la sua testimonianza sino al sacrificio della vita.

«Se è nei disegni di Dio che questa ondata di sangue travolga anche me – scriveva nell’aprile 1978 – io voglio solo pregarlo di accettare un olocausto che sia per la sua gloria... Se non c’è altra via per aprire ai nostri figli una società diversa e più giusta, umana e civile, e se questo comporta il nostro personale, estremo sacrificio, io mi sento di poterlo offrire: il sacrificio della mia vita per la nobile causa dell’umanità e della fratellanza».

 
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Antologia

Potenza, 31 luglio 1974

Questa sera sono molto stanco e preoccupato. Le cose della Regione non vanno bene: la prepotenza dei sindacati e la slealtà delle forze politiche, la scorrettezza di compagni di viaggio nella stessa compagine politica, l’intrigo, la malevolenza e l’affarismo sono fatti che scoraggiano a durare in questa inaudita quanto inutile battaglia contro il precipizio.

Non ci sono regole al gioco, non c’è voce del dovere che sia ascoltata, non ci sono limiti all’ambizione: chi tenta di porre dei freni è osteggiato, è un anacronistico, è uno scomodo [...] Di qui, il disgusto di rimanere in una scena tanto degradata.

Perché rimanerci? Per rispondere a quali voci dell’anima? A quali ideali del cuore e della mente? Sono sicuro che Dio vuole che sia ancora questa la mia strada? O che, proprio con il disgusto delle cose, non mi invita a recedere per indirizzare meglio la mia vita?

Sto leggendo un profilo di De Gasperi, uomo cristiano. È affascinante! Come vorrei riprodurlo, nel piccolo, quell’esempio luminoso! Ma a quei tempi la politica era ancora suscettibile di interiorità e di idealità. Oggi, in questo deserto delle anime, quei fiori non spuntano più e tutto è aridità fisica e morale.

Se spezzo questa catena avrò il conforto che almeno una parte di questa vita spesa in politica possa rappresentare per me ancora qualcosa di positivo: per coloro a cui ho potuto fare del bene, per la mia anima che pure scese in politica piena di idealità e di tensione morale. Se invece la dura, ho timore che tutto sarà travolto.

Anche nella mia stessa valutazione.

O Dio, sulle miserie di questa febbrile attività, divenuta quasi un rovello che consuma e annienta le realtà che irrompono e passano su questa scena spesso allucinante, stendi il velo della tua misericordia. A me, che aspiro ancora a rendere utile e valida la mia vita tra gli uomini, addita, per le tue vie, quello che debbo fare. Per essere più padre di quanto sono stato finora, per essere più uomo nella società e più cristiano tra i miei fratelli.

(Dal diario di Vincenzo Verrastro)

Viviamo in un partito nel quale ci sentiamo a disagio (...) La mancanza di spinta interiore a fare politica si accompagna a un grave vuoto culturale. Sì che vengono alla ribalta e assurgono anche a responsabilità personaggi poveri di qualità morali e più poveri di idee, la cui azione è fatta di improvvisazione, pressapochismo o di bolsa e vieta retorica.

Il bene comune non rappresenta sempre l’obiettivo al quale si indirizza l’iniziativa politica: né il limite per l’affermazione dell’interesse personale. Di qui, le negligenze nella direzione delle Amministrazioni, lo sperpero dei mezzi finanziari e il favoritismo che sacrifica all’interesse  dei pochi quello della comunità.

In un clima in cui non sono i valori morali, culturali o politici a contare, ma le sole spinte particolari e contingenti, il partito, per i posti di responsabilità, non sceglie gli uomini migliori e più preparati (...).

La Dc è un partito che si fonda su valori morali scaturiti dal Cristianesimo: nella doverosa aconfessionalità di esso, vanno costantemente affermati, nei programmi e nella prassi, quei principi ispiratori che lo accreditarono nel passato come forza rinnovatrice della società, come  strumento di progresso del popolo e di affrancamento degli umili dallo sfruttamento dei potenti, dalle ingiustizie sociali, dalla povertà materiale e dall’arretratezza civile.

Operare per la creazione di una società più giusta e più progredita può rappresentare un ideale per il cittadino; può giustificarne sul piano morale l’impegno e il sacrificio; può appagare la nobile aspirazione dell’uomo di portare, nell’umile storia di tutti i giorni come in quella più  alta che si lega ai grandi eventi dei popoli, il proprio contributo alla causa di tutti.

(Dal discorso al Comitato provinciale Dc del 14.10.1971)

BIBLIOGRAFIA

Testi su Vincenzo Verrastro

V. Verrastro (a cura di), Vincenzo Verrastro. Fede, cultura, politica. Atti delle Giornate in ricordo di Vincenzo Verrastro (Avigliano, 6-7 novembre 2009), Pisani edizioni, Avigliano 2014.

V. Verrastro, Vincenzo Verrastro: una vita a servizio della popolazione lucana, Pisani edizioni,  Avigliano 2009.

G. Claps, Vincenzo Verrastro. “Del tempo e dell’eterno”: il diario del primo presidente della Regione Basilicata, in «Il laboratorio Avigliano. Vicende politico amministrative, culturali, sociali e di attualità», 13-14/2008, pp. 3-6.

G. D’Andrea, Tra fede e politica. I Diari di Vincenzo Verrastro, in «Decanter. Laboratorio della sinistra lucana», 1-2/2008, pp. 35-38.

V. Verrastro (a cura di), Del tempo e dell’eterno. Pagine di diario di Vincenzo Verrastro (1970-1981), Congedo editore, Galatina 2008.

R. Giura Longo, Vincenzo Verrastro, la Regione e il problema politico della cultura cattolica in Basilicata, in «Bollettino Storico della Basilicata», 20/2004, pp. 7-14.

G. D’Andrea, Vincenzo Verrastro: un grande della politica, in «Leukanikà. Rivista lucana di cultura e varia umanità», 1-4/dicembre 2004), pp. 31-36.