Comunità autorità ministeri

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Come la Chiesa può essere un antidoto alla deriva individualistica e alla crisi del senso comunitario? Come può rappresentare una figura di società salvata? Nell’osmosi che sempre si realizza con la società civile e le sue forme storiche, la questione cruciale appare il modo di pensare ed esercitare l’autorità. Il Dossier vorrebbe aiutare a districarsi nel rapporto tra comunità, autorità, ministeri, attraverso una riflessione che muove dalla considerazione filosofica e giuridica dell’attuale congiuntura culturale e di ciò che costituisce una comunità, per costruirsi poi, in una prospettiva più propriamente ecclesiologica, nell’attenzione ai frutti che una ripresa della sinodalità può portare.

Indagini sociologiche, ma anche percezioni prescientifi­che, attestano che il senso della “cosa comune” è andato gradualmente erodendosi negli ultimi decenni, benché in alcune tragiche circostanze riemerga, anche solo per tem­pi brevi: l’iniziale reazione alla pandemia e alla guerra in Ucraina testimoniano che la solidarietà non è morta. Le osserva­zioni sulle tendenze individualistiche, sulla crisi dell’associazio­nismo, sul decadimento dei partiti e delle organizzazioni sinda­cali, si sono moltiplicate e trovano riscontro anche nella Chiesa, dove è dato constatare la riduzione del numero dei partecipanti non solo alla vita liturgica, ma pure a iniziative comuni. I movi­menti ecclesiali, che negli anni Ottanta del secolo scorso aveva­no dato l’impressione di sostituire le classiche forme associative (si pensi all’Azione cattolica o alle Acli), non sono esenti da crisi di appartenenza. Si tratta di un fenomeno culturale che interro­ga e le cui radici non sono facili da individuare.
I giudizi moralistici che a volte vengono emessi non aiutano a comprendere il fenomeno allusivamente richiamato. Forse ci si potrebbe domandare se, all’origine, non vi sia il desiderio, tutto umano, di scrollarsi di dosso forme di “imperialismo”, sia esso po­litico o religioso. In questo senso, anche la frequente denuncia di “pensiero unico” non pare cogliere la vera questione. Pare, infatti, che le persone tendano piuttosto a scegliere secondo ciò che più immediatamente le gratifica, anche perché la complessità della vita sociale impedisce di riflettere con pacatezza sulle implicazioni delle scelte che si compiono.
È sempre più diffusa anche la percezione che le istituzioni non rispondano ai bisogni e ai desideri che urgono. Di conseguenza la cosiddetta “religione fai da te” è più effetto di delusione che non di soggettivismo: mentre, infatti, si continua a usare l’espressione “comunità cristiana”, la percezione di molti è che questa non in­dichi un’effettiva realtà comunitaria, ma sia un’espressione retori­ca. Si crea pertanto una specie di circolo vizioso: ci si aspetta che la comunità risponda ai propri bisogni, ma pochi sono disposti a offrire il loro contributo alla costruzione di una comunità capace di soddisfare le attese.
Non si può negare che le comunità cristiane tradizionali, soprat­tutto le parrocchie, il cui valore viene continuamente ribadito, appaiono piuttosto ingessate in forme ripetitive. Nessuno potreb­be eccepire che alcune pratiche siano necessarie (si pensi alle cele­brazioni liturgiche), ma molti si domandano che rapporto queste abbiano con la vita concreta delle persone. D’altra parte, se le comunità non sono ravvivate da persone, è difficile che possano corrispondere ai desideri di queste.
Quanto detto per le comunità cristiane vale per ogni forma di co­munità. In questione è la visione della persona umana: la sottoline­atura del valore dell’individuo, che è stata accentuata dalla cultura segnata dal liberalismo economico, ha creato forme di individua­lismo che poi si ritorcono sulle persone stesse, creando solitudini dalle quali esse si protendono verso la comunità che dovrebbero contribuire a creare, aspettandosi che questa soddisfi le loro attese. Ma tali attese non possono che essere destinate alla frustrazione appunto perché la comunità è diventata piuttosto asfittica.
Se a tutto ciò si aggiunge che le autorità faticano a proporsi come guide credibili, sembra difficile vedere una via di uscita.
Per quanto attiene alla Chiesa si avverte una questione supple­mentare (che ha qualche riscontro anche nell’ambito politico; si pensi alla riconosciuta autorevolezza del presidente Mattarella): papa Francesco sta diventando il punto di riferimento per tutti. Neppure quando nell’Azione cattolica si cantava Bianco Padre si guardava al papa come “meta, luce e guida” come invece pare stia avvenendo oggi con papa Francesco. Le sue iniziative, che vogliono dare vitalità alla Chiesa tutta, rischiano paradossalmente di oscurare la figura dei vescovi e, a maggior ragione, dei par­roci. Questi ultimi, oberati da incombenze che richiederebbero competenze plurime, avvertono un senso di inadeguatezza depri­mente, che si accentua quando si sentono dire che dovrebbero coinvolgere i laici, molte volte non disponibili ad assumersi re­sponsabilità, almeno in forma stabile. Si ha un bel parlare di cari­smi, ma diventa difficile trovare persone che ne siano consapevoli e quindi li mettano a disposizione della comunità, che potrebbe anche riconoscerli come ministeri.
Tutto ciò solo a causa del clericalismo? Innegabile che questo per­manga uno dei peccati presenti nella Chiesa, ma molti preti (e vescovi) si domandano se non sia anche frutto di quanto si chiede loro senza prepararli a svolgere un ministero che appare sempre più complesso. È facilmente constatabile che, se si affidano com­piti a persone che avvertono di non essere in grado di svolger­li, queste cadono nella tentazione di irrigidirsi per nascondere la loro inadeguatezza. Ciò vale ancora di più quando quei compiti sono teologicamente rivestiti. In tal senso una forma di teologia del ministero ordinato, che viene da lontano e si mantiene, no­nostante il Vaticano II, non ha aiutato e non aiuta i presbiteri a sentirsi corresponsabili, e non unici responsabili, della vita della comunità parrocchiale. Ciò vale anche per i vescovi, per i quali la necessaria (?) esposizione mediatica rischia di trasformarsi in un boomerang: da una parte si mostrano come le guide del popolo di Dio loro affidato, ma dall’altra si espongono a essere ritenuti gli unici responsabili di tutto.
Va riconosciuto che la teologia dell’episcopato formulata dal Vati­cano II, che ha voluto completare la dottrina del Vaticano I, ha en­fatizzato a tal punto la figura del vescovo da farla diventare – come si esprimeva recentemente un autorevole vescovo italiano – sindaco, prefetto, questore, gestore, amministratore delegato ecc. della sua diocesi. Se si tiene conto della tendenza alla delega presente in molte persone, non ci si può meravigliare se queste figure di preti e di vescovi (e del papa) rischiano di trovare in essa alimento, con un rebound che accentua ancora di più quella tendenza. Non si possono certamente demonizzare i social, che costituiscono vie di diffusa e veloce comunicazione, ma non si può neppure nascon­dere che si tramutano spesso in tentazione: la visibilità appaga, ma tradisce; richiede forme abbreviate di comunicazione, ma non educa al pensiero; produce parole che impressionano, ma non sti­mola a cercarne il senso più profondo e quindi a farle diventare specchio della realtà. Lo si riscontra anche nel processo sinodale che papa Francesco ha avviato con l’intento di rendere tutti i fedeli consapevoli di essere “discepoli missionari”.
Si tratta di una provocazione salutare a dare voce a tutti i fedeli, che, come ricordato dal Vaticano II e più volte richiamato da papa Francesco, sono dotati del sensus fidei. La difficoltà ad accogliere questa provocazione è notevole: il peso della tradizione, la ten­denza a dare rilievo ai leader rispetto alla totalità del popolo, la mancanza di criteri per discernere carismi e riconoscere ministeri, sono tutti fattori che rendono faticoso anche il cammino sinodale.
Una rilettura dei decenni che abbiamo dietro le spalle forse aiu­terebbe a capire meglio come sviluppare i germi di rinnovamento introdotti nella Chiesa dal Vaticano II.
Non si può infatti dimenticare che l’ultimo Concilio è nato sull’onda del ressourcement (ritorno alle fonti), che aiutava la Chiesa a non confondere la tradizione con la cristallizzazione di forme, bensì a considerarla un processo mai compiuto, finaliz­zato a rendere presente il Vangelo nell’attualità storica. Neppure si può tralasciare che l’associazionismo cattolico preconciliare ha preparato persone corresponsabili anche nell’ambito civile: le forme democratiche di organizzazione delle associazioni erano antidoto alla conservazione del potere da parte di alcuni leader, senza misconoscerne il valore; la memoria di queste forme de­mocratiche potrebbe pertanto diventare oggi antidoto alla ri­cerca di leadership “populiste”, che non necessariamente sono carismatiche.
Tanto meno si può dimenticare che nel discernimento di carismi e nel riconoscimento di ministeri occorrerebbe trovare il coraggio di superare gli schemi ecclesiologici ed ecclesiastici più recenti: se di carismi si tratta, non si può pensare di “inghiottirli” in figure di Chiesa già conosciute; se si tratta di ministeri, non si possono immaginare secondo forme di missione feconde alcune decenni orsono, ma oggi inefficaci.
Il dossier tra le mani del lettore vorrebbe aiutare a districarsi nel groviglio di problemi che il rapporto tra comunità, autorità, mi­nisteri, evidenzia.
Sullo sfondo sta la convinzione, espressa dal Vaticano II, soprat­tutto in Gaudium et spes, n. 44, secondo la quale tra figura di Chiesa e comunità umana c’è uno stretto nesso: la Chiesa espe­rimenta influssi culturali e istituzionali dalla società nella quale è radicata, ma è soprattutto chiamata a riversare in questa aspet­ti della sua originalità, anche organizzativa. Un tale compito le deriva dalla consapevolezza di avere una matrice altra e quindi di rappresentare una figura “salvata” di società. Innegabile che, nel corso del tempo, anche nell’esercizio dell’autorità la Chiesa si sia lasciata modellare dalle forme storiche della società civile, benché non sia mai tramontato l’appello di Gesù ai discepoli di non lasciarsi guidare dai modelli di potere presenti nel mondo (cfr. Mc 10,35-45).
Stante questa osmosi, sembra pertanto opportuno dare uno sguar­do agli elementi costitutivi della comunità in generale e alla crisi del senso comunitario in atto, oltre che alle forme di esercizio dell’autorità presenti nell’attuale congiuntura culturale, al fine di immaginare il senso “salvifico” di comunità e autorità. I contributi di Luca Alici e Damiano Palano vogliono appunto aiutare a capire attraverso quali vie si possano superare le dinamiche mortificanti alle quali sopra si è accennato. Si tratta di considerazioni che pre­parano una riflessione più propriamente ecclesiologica, articolata in tre interventi tra loro strettamente connessi. Nel primo, il noto ecclesiologo don Severino Dianich offre una disamina dei “bloc­chi” che ancora sono presenti nella Chiesa relativamente al modo di pensare/esercitare l’autorità e delinea i frutti che la ripresa della sinodalità potrebbe offrire. Nel secondo Simona Segoloni aiuta a capire come la comunità sia il luogo nativo per la vita dei di­scepoli di Gesù. Nel terzo don Enrico Brancozzi indica percorsi possibili per preparare soprattutto ministri ordinati in una Chiesa che dovrebbe essere tutta ministeriale.
Il Forum coinvolge una filosofa (Laura Boella), una pedagogista (Monica Amadini) e un politico (Paolo Corsini), nel tentativo di comprendere le ragioni della caduta del senso della comunità nell’attuale stagione culturale e per capire come questa situazione possa essere superata.
Da questo percorso potrebbero/dovrebbero uscire indicazioni per la vita delle comunità cristiane, affinché diventino luoghi di edu­cazione di persone che offrono il loro contributo anche per la costruzione della comunità civile. La questione pare infatti anzi­tutto di carattere culturale: la deriva individualista può/deve esse­re arginata, e le comunità cristiane, pur senza presunzione, sono chiamate a costituire un antidoto a essa.