L’urgenza della pace e la logica della vittoria

di 

L’azione di pace della Santa Sede mira a proteggere la dignità inviolabile di ogni persona, promuovere il bene comune e favorire la fraternità tra i popoli. Ma in un quadro geopolitico complesso, il ritorno di modelli imperialistici e la crescente influenza di altri attori potenti, rende ancora più difficile la risoluzione pacifica dei conflitti.

In Ucraina c’è un conflitto nel conflitto, provocato dalla contrapposizione tra i due assunti, che entrambe le parti in lotta si ostinano inutilmente a tenere insieme.
Un equilibrio impossibile, come dimostrano le devastazioni delle città ucraine piuttosto che l’angoscia dal sapore staliniano nella quale è ripiombata la Russia. Come testimoniano, soprattutto, le pure incerte cifre sulle vittime, dalle quali si ricava che finora sarebbero morti in tutto circa sessantamila soldati e altri trecentomila sarebbero  rimasti feriti. Per non parlare delle conseguenze sulla popolazione. Secondo i dati delle Nazioni Unite, in Ucraina sarebbero almeno ottomila i civili uccisi, ben oltre cinque milioni gli sfollati interni e otto milioni i rifugiati all’estero. Diciotto milioni di ucraini, vale a dire circa il quaranta per cento della popolazione, necessitano di aiuto.

La situazione umanitaria più drammatica riguarda i bambini ucraini: l’ottanta per cento è in stato di povertà a causa della guerra. L’Alto commissariato dell’ONU per i diritti umani ha calcolato che nei soli primi dodici mesi di combattimenti hanno perso la vita 438 minori e 854 hanno subito ferite. C’è poi la pratica barbara della deportazione in Russia dei bambini ucraini dai territori occupati. Si tratta di piccoli rimasti senza genitori per via del conflitto, oppure ospiti in orfanotrofi o altri istituti. Cinicamente il Cremlino ha giustificato l’operazione definendola un “atto umanitario” per salvare vite innocenti.

Di questa deportazione di massa ha riferito al papa il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nell’incontro avuto in Vaticano lo scorso 13 maggio. Zelensky ha parlato di circa ventimila minori portati forzatamente in Russia, ma la cifra – ha detto – potrebbe essere dieci volte superiore. Su questo dramma ha chiesto a Francesco una mediazione perché i bambini possano fare ritorno nel loro paese.

La sponda della Santa Sede, però, nella visione di Zelensky si ferma al piano umanitario, peraltro già utilizzato per favorire lo scambio dei prigionieri. A livello diplomatico, invece, le porte rimangono chiuse. Sono state nette le dichiarazioni del presidente ucraino dopo i quaranta minuti di colloquio con Bergoglio. Tramite i social e le tv, Zelensky ha riferito di aver detto al papa che la “formula” ucraina è l’unica efficace per raggiungere una “pace giusta”. In sostanza, o il pontefice sposa la linea per così dire atlantista, o non c’è margine di discussione con Kiev. «Non abbiamo bisogno di mediatori», ha affermato quasi sprezzante. «Non mi interessa parlare con Putin: cosa potrei dirgli?». Ha anche riferito di aver chiesto al pontefice di condannare i crimini russi, perché non può esserci uguaglianza tra vittima e aggressore.

Francesco, in realtà, ha formulato molte volte questa condanna, aggettivando sempre l’Ucraina come «martoriata». Chi non ricorda le sue lacrime lo scorso 8 dicembre davanti all’obelisco dell’Immacolata in Piazza di Spagna? I suoi interventi hanno però tenuto conto di tutte le sofferenze che provoca una guerra, che non fa distinzioni tra buoni e cattivi o tra vinti e vincitori. In aprile, ad esempio, nel corso dell’Udienza generale, Francesco ha menzionato «tutte le vittime dei crimini di guerra» e accomunato nella supplica a Dio ogni madre che ha subito il dolore di un figlio ucciso al fronte: «Guardando Maria, la Madonna, davanti alla croce il mio pensiero va alle  mamme: alle mamme dei soldati ucraini e russi che sono caduti nella guerra; sono mamme di figli morti, preghiamo per queste mamme». Parole di pietà che Kiev fatica a recepire, assordata com’è dalle esplosioni dei bombardamenti putiniani. Sente soltanto, in questa fase, di non poter condividere nulla con i russi, neppure il dolore. E punta tutto sulla controffensiva militare per riguadagnare almeno parte delle zone invase, pari a circa il venti per cento del territorio. In particolare le regioni orientali “russofone” di Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhya e Kherson, oltre alla penisola della Crimea. Quanto sia lontana tale prospettiva da quella del papa lo si è capito  allo scambio dei doni al termine della citata udienza. Zelensky ha regalato al papa un giubbotto antiproiettile su cui è dipinta l’immagine della Madonna. «È la protettrice dei nostri guerrieri», ha detto a Francesco tramite l’interprete. Il secondo dono è stato un’icona mariana dove al posto di Gesù in braccio alla Vergine c’è una  macchia nera, simbolo dei bambini ucraini vittime del nemico russo. Il papa ha ricambiato con una piccola scultura a forma di ramoscello d’ulivo, insieme alle copie del messaggio per la Giornata mondiale della pace, del documento sulla Fratellanza umana, del libro sulla Statio Orbis del 27 marzo 2020 (quando disse che siamo tutti  sulla stessa barca, «chiamati a remare insieme») e del volume che raccoglie la maggior parte dei suoi interventi pubblici sulla guerra in Ucraina.

La mattina di quel 13 maggio, ricevendo le lettere credenziali di cinque nuovi ambasciatori, tra cui il rappresentante siriano, Francesco aveva spiegato la posizione della Santa Sede, che non persegue scopi politici, commerciali o militari, ma vuole proteggere la dignità inviolabile di ogni persona, promuovere il bene comune e favorire  la fraternità tra i popoli. Come? Attraverso «l’esercizio di una neutralità positiva», che però non è “neutralità etica” di fronte alle sofferenze umane ovvero non chiude gli occhi sulle colpe di una o dell’altra parte e dunque non fa di tutta l’erba un fascio.

Con questa posizione, ben definita nella comunità internazionale, si cerca di contribuire a spegnere i focolai di tensione, a superare le posizioni più rigide e a trovare soluzioni accettabili per arrivare almeno a un cessate-il-fuoco.

Zelensky non è sembrato interessato a questi consigli. Il suo incontro con il papa va considerato dunque un’occasione mancata? Forse sì nel breve termine, ma lo stesso non si può dire se si allarga la prospettiva. Per il presidente ucraino, che si era già recato in Vaticano l’8 febbraio 2020, quello di maggio è stato il primo incontro col pontefice mentre la guerra è in corso. Le parole e – più ancora – la “postura” di Francesco torneranno (speriamo presto) utili a chi adesso preferisce presentarsi davanti a ogni interlocutore indossando abiti militari, ma che dovrà comunque sedersi un giorno al tavolo delle trattative. Nel frattempo il papa ha incaricato il cardinale  Matteo Zuppi di una missione di pace che lo ha portato a Kiev e che prevede, mentre scriviamo, una prossima tappa a Mosca. L’arcivescovo di Bologna e presidente della Cei è un veterano, con la Comunità di Sant’Egidio, di quella “diplomazia di base” che portò, nel 1992, alla firma dell’accordo di pace in Mozambico. Saranno di  sicuro negoziati complessi, perché complicato è il quadro geopolitico che fa da sfondo, col ritorno a modelli imperialistici che sembravano consegnati per sempre alla storia e che tendono a strozzare il multilateralismo, su cui tanto si era puntato dopo la fine della Guerra fredda. Oggi, se possibile, i pericoli sono ancor maggiori  rispetto a quel periodo, perché ci sono terzi potentissimi attori che non si accontentano di rimanere alla finestra. Il riferimento, ovviamente, è prima di tutto alla Cina, ambigua nelle sue posizioni sulla guerra russo-ucraina e che intanto mostra i muscoli con Taiwan. «Non si può immaginare il futuro sulla base dei vecchi schemi, delle  vecchie alleanze militari », ha avvertito il segretario di stato vaticano Parolin.

In parallelo c’è la questione dei rapporti ecumenici. Le religioni, tanto più quella cristiana, possono e vogliono farsi promotrici di pace? Certo, si dovrebbe anzi dire devono. Il richiamo di papa Francesco è stato continuo, in tal senso, nei dieci anni e più di pontificato. Il patriarcato ortodosso di Mosca è però legato a doppio filo al  Cremlino, in un gioco di sponda che condiziona le due parti. Putin ha colorato la sua “operazione speciale” di tinte manichee: la lotta tra il bene e il male, tra una nazione che difende i valori tradizionali ereditati dal cristianesimo e una società corrotta che vuole distruggere ogni principio etico. Kirill gli è andato dietro, offrendo di fatto  copertura morale all’intervento armato russo.

La conseguenza è stata l’incrinatura dei rapporti ecclesiali tra Roma e Mosca, che erano stati intessuti pazientemente negli ultimi anni e che avevano portato all’incontro di Francesco e Kirill all’Avana, il 12 febbraio 2016. Tuttavia, le relazioni non si sono mai interrotte. Lo testimonia, tra l’altro, il caloroso saluto che lo scorso 3 maggio  ha riservato al papa il metropolita Antonji, presidente del dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca. In visita in Vaticano, Antonji ha avuto un colloquio con l’arcivescovo Claudio Gugerotti, prefetto del dicastero per le Chiese orientali, e ha poi assistito all’udienza generale in piazza San Pietro, al termine della quale  ha fatto omaggio a Francesco di una Panaghia, il medaglione con l’immagine della Madre di Dio che i metropoliti ortodossi portano al petto. Segni della volontà di non spezzare la trama evangelica che rimanda all’invito “ut unum sint” – “ina osin en”, rivolto da Gesù agli apostoli al termine dell’Ultima cena (Gv 17,21).

L’ambito ecumenico, apparentemente solo confessionale, nasconde forse la chiave per uscire dall’impasse che sta devastando i confini orientali d’Europa. Solo nell’ottica della condivisione fraterna e di un umanesimo solidale si accetterà di far prevalere il dialogo, la trattativa, la mediazione sulla legge del più forte, sull’uso della forza come mezzo per raggiungere la “vittoria”. Questo sostantivo ha ormai sostituito la parola “pace”, col risultato che ci troviamo in un pantano dove non c’è né pace né vittoria. Zelensky parla di “pace giusta”, ma in questo anno e mezzo di conflitto ucraino ci siamo chiesti tante volte come credenti se ci può essere una “guerra giusta”. Naturalmente non ci sono risposte preconfezionate e riconosciamo il diritto sacrosanto a difendere la propria famiglia, la propria casa, il proprio paese. Tuttavia sappiamo che si tratta di una “extrema ratio” e che è pericoloso parlare di pace “sub conditione”, facendola dipendere solo dalla vittoria.

Scriveva già molti decenni fa nel suo testamento Raoul Follereau, “l’apostolo dei lebbrosi”, rivolgendosi ai giovani: «O la guerra o la pace. O gli uomini impareranno ad amarsi – o, infine, l’uomo vivrà per l’uomo – o gli uomini moriranno. Tutti e tutti insieme. Il nostro mondo non ha che questa alternativa: amarsi o scomparire. Bisogna  scegliere. Subito. E per sempre. Ieri, l’allarme. Domani, l’inferno».