Tempo di emergenze e di speranze

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Il tempo di crisi in cui siamo immersi, che è insieme un tempo di speranze, chiede a ciascuno l'impegno di riflessioni a lungo termine e un’assunzione di responsabilità nel recuperare il senso pieno del politico, da credenti.

Che la crisi in cui si trova oggi il paese sia davvero grave e dagli sbocchi imprevedibili lo dimostra l’attenzione preoccupata con cui la stampa estera, europea e non, sta seguendo, le vicende italiane. Tutti gli osservatori sono stati colti di sorpresa dalle dimissioni irrevocabili del governo Draghi: la serata di mercoledì 17 luglio è apparsa interminabile, confusa e drammatica, destinata a restare nella memoria di molti. Le elezioni politiche poi, indette dal presidente Mattarella, e la decisione di sciogliere il Parlamento prima della fine della legislatura appartengono a un ordine di gesti che, nel precedente settennato, erano considerati altamente improbabile. La campagna elettorale d’estate, breve e rissosa, potrebbe condurre a risultati rischiosi per un paese in pericolo di recessione economica, colpito dal ritorno dell’inflazione e alle prese con una crisi energetica, conseguenza dell’irrisolta guerra russo-ucraina, che si manifesterà in tutta la sua gravità nel prossimo autunno-inverno. Senza contare che la pandemia da Covid-19, quasi scomparsa dal dibattito pubblico, non si è esaurita, come ci dice il numero dei contagi, i ricoveri e i morti di cui ci parlano quotidianamente i bollettini stilati dal Ministero della Salute.
Il corrispondente dall’Italia de «Le Monde» si è chiesto se dopo le elezioni l’Italia «continuerà a seguire una linea atlantica e pro-Europa che era stata seguita con rigore da Mario Draghi, sino al momento in cui la coalizione che sosteneva il governo si è dissolta», anche se, a dire il vero, non erano mancati in precedenza tensioni e colpi di scena. Il giornalista del londinese «Financial Time», a sua volta, si è mostrato dubbioso, dopo l’addio di Draghi, sulle capacità dei governanti che verranno, di accedere nei tempi previsti alla quota di fondi stanziati dall’Unione Europea, di cui l’Italia è la principale beneficiaria, e di dar mano o portare a termine le riforme individuate come necessarie. Il rispetto degli obiettivi fissati dal Ricovery plan – il piano di riforme per favorire la ripartenza del paese dopo il trauma della pandemia (con al centro la questione del lavoro, della sanità pubblica, della scuola, della emergenza climatica e ambientale) è una delle condizioni non negoziabili per consentire all’Italia di essere protetta dal nuovo scudo antispread annunciato dalla Banca comune europea (BCE). Un ombrello cui non si può rinunciare per difendersi dalle turbolenze sui titoli di Stato.
L’Italia vista con gli occhi dei quotidiani stranieri ci può aiutare a cogliere aspetti non sufficientemente messi a fuoco e a rendere più limpida la percezione che ne hanno coloro che operano nei tanti mondi vitali del paese e spingono a maggiori approfondimenti. Come, ad esempio, la questione dei rapporti con l’Europa, che riemerge in vasti settori dell’opinione pubblica e nelle prese di posizione dei vari partiti. Se è vero che le politiche nazionali sono ormai talmente intrecciate con quelle europee – si veda la tormentata discussione sul tetto al prezzo del gas – si pone con forza la domanda con quale Europa continuare a camminare. Una visione di essa configurata come una «confederazione di Patrie» in cui siano conservate le sovranità nazionali in modo che lo Stato possa riacquisire il pieno controllo delle politiche pubbliche – come ha osservato il politologo Sergio Fabbrini – «implicherebbe uno smantellamento dei programmi europei (come il Neg-Eu e il relativo PNRR), mentre il tendere con decisione verso un’Europa federale è compatibile con i programmi europei, in quanto ogni stato sarebbe tenuto alla solidarietà reciproca di fronte alle dure sfide collettive [...] solidarietà non scontate». Nel momento in cui si vanno rivedendo le politiche pubbliche di sicurezza e si annunciano nuovi equilibri, va mantenuta alta la tensione per un’Europa federale, dove i nazionalismi siano tenuti a bada, ma non così le varie identità nazionali intese come «sistemi aperti di esperienze e di memorie». Lo stesso Sergio Fabbrini, nella Lectio degasperiana tenuta a Pieve Tesino, la patria del grande statista trentino, il 19 agosto scorso (è riportata in parte da «Il Sole 24 ore» del 14 agosto scorso), sosteneva la necessità che l’unione federale europea sia tenuta insieme da valori politici che uniscano storie culturali e religiose diverse. «Ciò che dovrà tenere insieme l’unione federale è la condivisione dei principi liberali dello Stato di diritto e delle libertà individuali e i principi della divisione dei poteri che garantiscano la democrazia politica». Era anche il pensiero di De Gasperi, tra i fondatori dell’Europa.
Tutto ciò è in piena sintonia con la nostra Carta costituzionale che ha fatto proprie le istanze del moderno costituzionalismo. Osservava il giurista Valerio Onida che il costituzionalismo è nato con una impronta e una vocazione “universalistiche”, ispirato dalle quattro libertà che il presidente Roosvelt aveva indicato al congresso statunitense il 7 gennaio del 1941: libertà di espressione, di religione, dal bisogno e dalla paura (ovunque nel mondo). La Costituzione italiana nasce in questo clima storico, ben espresso dall’art. 11, che ripudia la guerra e accetta limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni, cui si aggiunge la clausola dell’articolo 10 che recita così: «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Una clausola che ha permesso al nostro paese un lungo cammino nella creazione e nello sviluppo delle istituzioni dell’Europa comunitaria e dell’Unione Europea. La Carta costituzionale è tuttora una bussola decisiva per quanto riguarda i motivi ispiratori della politica interna e del modo di essere dell’Italia nell’Europa e nel consesso internazionale. Sono quindi da guardare con sospetto i tentativi di modifiche incisive, promesse in campagna elettorale, come quella che è stata lanciata da partiti della destra: l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e la sua trasformazione da figura di garanzia a capo del governo. Pericolosa: non solo perché questa istituzione è in difficoltà nei paesi in cui ha già una lunga tradizione, ma perché, se imposta da una larga maggioranza senza un confronto reale in parlamento, lacererebbe ulteriormente la nostra fragile democrazia; fragile anche in paesi dove sembrava essersi consolidata nel tempo.
Come in altre stagioni, dal secondo dopoguerra in poi, i cattolici italiani sono stati chiamati dai vescovi italiani a dare un loro contributo “responsabile”, in forme necessariamente diverse dal passato, per uscire dall’impasse in cui si trova oggi la democrazia, nella logica del bene comune e non di una parte. Non mancano di certo persone credenti impegnate in politica, nell’intero arco dei partiti, che occupano ruoli rilevanti, così come non manca una consistente quota di impegnati nel sociale che spesso incontra difficoltà a trovare interlocutori attenti nell’ambito delle istituzioni e della politica, mentre i partiti, che dovrebbero essere i naturali intermediari tra società civile e istituzioni, sono troppo spesso assenti dai territori e costruiscono programmi appiattiti sul presente, senza aprire orizzonti che offrano il senso del camminare insieme. Impegnarsi sin d’ora in una riflessione comune, non solo infraecclesiale, su questi temi – riflessione che andrà condotta ben oltre il tempo stretto delle elezioni, senza lasciarsi sedurre frattanto dalle sirene dell’astensionismo, è già un trovarsi nel solco di quella politica con la P maiuscola di cui parla continuamente papa Francesco. L’astensione è un venir meno alla propria responsabilità verso tutti. Assumersi la responsabilità, recuperando il senso pieno del politico, è un dovere dei credenti anche in istituzioni sempre imperfette e sempre perfettibili.

 

8 settembre 2022