Parole e gesti che a Lampedusa narrano un altro Mediterraneo

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Sono trascorsi dieci anni dalla storica visita a Lampedusa di papa Francesco, divenuta uno dei luoghi simbolo del dramma dei migranti. Nella carne dei corpi feriti, sepolti dal mare, trasfigurati dalla sofferenza, continua la kenosi della carne del Figlio di Dio.

Sono passati dieci anni dalla visita di Francesco a Lampedusa: era l’8 luglio del 2013. La sua visita e la sua omelia sono state lette dallo storico Alberto Melloni come programmatiche dell’intero pontificato1 , come le note del suo magistero della realtà e della prossimità con cui sintonizzarsi; ponendo poi, da fine storico, un’intrigante analogia con il discorso di apertura del Concilio di Giovanni XXIII. Intendo abitare tale intuizione, costruita sull’analogia della novità come dono dello Spirito – tanto per la profezia di Giovanni XXIII, che porterà al Concilio, quanto per il sorgere del magistero di Francesco da Lampedusa – con questa mia riflessione che, a dieci anni dalla visita, legge a e da Lampedusa il cambiamento epocale che riguarda e attende profeticamente la Chiesa. Si tratta della novità agapica della carità, virtù teologale, partecipazione dallo Spirito Santo alla vita che è il Crocifisso-Risorto, capace di diventare la forza di grazia con cui le comunità ecclesiali vivono nella storia l’esperienza del Regno di Dio e lo stile evangelico della responsabilità testimoniale e della fraternità. Lo stesso Francesco, in apertura della sua omelia, fa questo passaggio da una lettura della storia che appartiene alla superficie della cronaca, all’assunzione (verbo fedele all’incarnazione) della storia drammatica della famiglia umana che ci ri-guarda e ci coin-volge: «Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali [...]. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta»2 . La carità come principio – forza della novità agapica che viene dal Crocifisso-Risorto – apre, nella tensione polare della contemporaneità tra cronos e kairos, una terza dimensione della temporalità come karis, ovvero come relazione di fra(e)ternità e di assunzione dei drammi custoditi come memoria passionis nei volti e nelle storie delle vittime dell’ingiustizia e dell’indifferenza, soprattutto in quelle piaghe non trasfigurate dei loro corpi, divenute cicatrici, racconti muti di violenze e di torture subite. Un grido silenzioso dei corpi che giunge fino al cospetto di Dio e a cui noi dobbiamo dare parole e gesti (struttura della Rivelazione). Parole e gesti di solidarietà, di “con-passione”, di cura, di preghiera. Parole e gesti capaci di fare della storia la salvezza.

Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. [...] Prima di arrivare qui sono passati per le mani dei trafficanti, coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare. [...] Tutti e nessuno! Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! [...] In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!»3 .

Spinto dalla novità agapica, mi sono recato a Lampedusa nel decennale della visita del papa; non per vedere se le cose fossero cambiate, non per celebrare un anniversario, tempo che appartiene al cronos, ma per fare memoria passionis dei migranti morti in mare, per pregare e piangere per loro, e per incontrare gli sbarcati, i sopravvissuti, ascoltare i loro nomi, sacramento di dignità umana, le loro storie e le loro cicatrici, pagine che completano la passione del Cristo, e farmene carico, in quel meraviglioso scambio che avviene grazie alla carità. Lungo il molo Favarolo, sbarcati perché soccorsi, la loro memoria passionis, divenuta per l’ascolto agapico e i gesti di solidarietà la storia di mio fratello, viene riscattata dal non avere un futuro e viene restituita alla speranza, alla giustizia, alla “con-passione”. Dando paradossalmente ai soccorritori un’esperienza liberante: la percezione drammatica della solitudine di chi è abituato a vivere la fede e la relazione con Dio solo come apertura trascendentale dell’io e che fa esperienza di una apertura altra, quella dell’abbraccio e della fra(e)ternità, che ti pone in relazione con Dio nella sua relazionalità agapica, nella sua apertura all’Altro che è sempre l’unico Dio ma che è dalla Trinità. Noi li soccorriamo, loro ci salvano. Al molo Favarolo, allora, accade alla coscienza credente di sperimentare una meravigliosa pericoresi agapica fra carità, speranza e fede.

La cosa fondamentale da fare, giunti a Lampedusa, è cominciare dall’ascolto. Ha ragione Giuseppina De Simone quando afferma: «È nel nodo delle migrazioni contemporanee che attraversano il Mediterraneo e le sue terre che si trova forse uno degli snodi fondamentali, un passaggio cruciale per potere pensare il futuro in maniera diversa, per immaginare in termini concretissimi un altro Mediterraneo: il Mediterraneo della convivialità»4 .

Da chi cominciare? Da coloro che mi hanno dato una chiave di lettura diversa di una delle pagine più belle del Vangelo, quella in cui Gesù sceglie e chiama degli uomini alla sua missione, rendendoli pescatori di uomini (cfr. Mc 1,14-20). A Lampedusa si possono ascoltare quei pescatori, resi dalla storia e dal loro contesto, realmente pescatori di uomini. La loro narrazione drammatica è il crinale di coscienza che pone l’acqua del mare tra la vita e la morte. La Scrittura conosce bene questa drammatica esperienza: la racconta nelle pagine del diluvio, nella storia dell’Esodo, vita per Israele morte per gli Egizi, e Gesù stesso seda una tempesta e permette una pesca miracolosa, quasi a dire che la vita deve uscire dalle acque. Il mare al confine drammatico tra il grembo e la tomba. Lungo i margini di questo confine, non visibile a occhi umani, ci sono le barche dei pescatori di uomini e di pesci di Lampedusa. E il pensiero nel crinale della coscienza dei pescatori che corre verso i propri figli, le proprie mogli, lasciati al sicuro a casa, coetanei e somiglianti con coloro che vedono ora in mare e che hanno lasciato la propria casa perché non era più sicura, non era più capace di custodire la vita. Cosa vedono realmente i pescatori? Il dramma del mare permette loro di vedere i migranti, le loro braccia tese, di scorgere i loro volti tumefatti dalla sete e dal sale, e di pensare ai propri figli, ai propri familiari, alla propria casa. Per nessun pescatore di Lampedusa casa propria è più la stessa. Ciò che vedono in mare ha cambiato il loro sguardo. Ciò che vedono adesso lo vedono anche con ciò che i migranti non vedono più. Il non poter vedere dei migranti è il modo con cui i pescatori guardano a ciò che ancora possono vedere: la propria casa, la propria terra, la propria famiglia.

Poi mi sono chiesto: se questa esperienza dell’umano-in-mare tra il grembo e la tomba cambia lo sguardo dei pescatori, cosa succede all’esperienza credente della comunità ecclesiale? L’orizzonte teologico di senso che mi ero auto-dato, da uomo mediocremente di studio a tavolino, era la lotta tra il bene e il male, la questione dell’esserci di Dio in queste storie di ingiustizia e di morte, l’«unde malum» della teodicea, da dove viene il male se Dio è bontà assoluta? Con una mia rilettura personale anche, fondata cristicamente sulla libertà e sull’obbedienza filiale, la vittoria della Pasqua sulla morte e sul peccato e sulla differenza agapica tra ciò che Dio promette e ciò che Dio permette. In verità, proprio questa lettura cristica, non solo cristologica, della storia mi ha permesso di entrare in ascolto della lettura che la comunità ecclesiale di Lampedusa fa del nodo drammatico delle migrazioni e come questa in verità li costringa anche a una nuova coscienza della propria fede e della propria presenza a Lampedusa come Chiesa. L’intuizione è del cardinale Montenegro che, nel decimo anniversario della visita del papa, richiamando alla memoria la veglia di Pasqua del 2011, ha affermato: «Leggemmo le Scritture come se descrivessero la storia dell’isola con gli occhi di Dio», aggiungendo però: «Nell’Esodo le acque danno morte agli aguzzini, schiavisti, trafficanti di carne umana, scafisti [...] mentre danno vita, a chi, errante, è in cerca di approdo in una nuova terra (cfr. Es 14,26-29). Ma l’attuale storia della migrazione ribalta il dato biblico»5 . La comunità ecclesiale di Lampedusa si riconosce nella narrazione delle Scritture: la storia dell’Esodo, la pagina del buon samaritano, la pagina delle opere di misericordia, le Lettere di Paolo sulla carità, la riguardano, sono parole non solo di Dio, ma anche dalla sua carne, dalla sua storia, dal suo legame con i migranti. La carne dei migranti continua la kenosi della carne del Figlio di Dio e offre alla comunità ecclesiale una nuova esperienza del senso delle scritture: la storia dell’isola con gli occhi di Dio. E poi ascolto il ricordo di quanti hanno accolto nella loro casa e tra i propri cari, anche solo per una doccia o un pasto o un paio di ciabatte, proprio i migranti. Oggi l’organizzazione degli sbarchi e quella dell’hotspot non guardano più alla comunità ecclesiale come primo luogo di accoglienza. Anche se viene poi coinvolta. Questo ha generato una nostalgia incredibile: la nostalgia dei poveri. Quando i poveri vengono accolti “tra noi” e non semplicemente aiutati, essi ti scavano un nuovo spazio ospitale, e quando essi non ci sono più perché vengono subito portati altrove, i loro volti, i loro pianti, i loro sorrisi, le loro paure ti mancano. Senti il tuo grembo ecclesiale svuotato.

Ma in quest’ultima visita a Lampedusa, spinto sempre dalla novità agapica della carità, ho fatto un’esperienza incredibile di prossimità con la carne di Vangelo che sono i poveri: ho potuto celebrare l’Eucaristia, proprio l’8 luglio, nell’hotspot con e per i migranti. Noi eravamo un bel gruppo6 desiderosi di incontrare da vicino i migranti sbarcati e soccorsi. Ed ecco la terza novità agapica: alcuni di loro ci hanno chiesto di poter celebrare una messa e di potersi confessare. Le autorità competenti ci hanno detto subito di sì! Una delle celebrazioni più forti della mia vita. Ricordo bene tre momenti: i segni delle cicatrici “da torture” sui loro corpi in contrasto con i sorrisi che ci donavano per la gioia di poter avere una messa lì dentro, riconosciuti come uomini e donne, finanche come credenti; le preghiere spontanee dei fedeli in cui hanno ricordato le loro mamme, i loro fratelli più piccoli... I nomi e i volti per cui sono partiti, sfidando la morte e le torture, per diventare loro stessi la possibilità di futuro per coloro che hanno lasciato. Infine la presenza di musulmani e non credenti, seduti fra di loro, che non si sono accostati alla comunione, ma che hanno chiesto a me, nello stesso momento, una benedizione, un abbraccio, una carezza. Non c’erano più uomini e donne, bimbi e adulti, neri e bianchi, soccorritori e migranti, soldati ed ecclesiastici, eravamo un solo corpo. Il corpo del Signore, crocifisso e risorto. Due ricordi: il pianto di gioia di un giovane appena finita la confessione, il sorriso di un bimbo che ha fatto da chierichetto. Oggi «la testimonianza che abbiamo più bisogno di ascoltare, per poter comprendere il destino del Mediterraneo, e poterne scorgere la silenziosa utopia, è quella dei migranti. Le loro voci, i loro sguardi portano con sé la tragedia della violenza e dello sfruttamento di secoli, l’umiliazione dei respingimenti e dell’indifferenza, ma anche la speranza di un futuro migliore, il sogno di una terra da poter condividere senza dimenticare chi si è, prossimi e stranieri senza alcuno scarto»7 .

Note

1 «L’omelia che Papa Francesco ha pronunciato a Lampedusa rappresenta una svolta, è un documento paragonabile a “Gaudet Mater Ecclesia”, il discorso di apertura del Concilio di Giovanni XXIII. Mi sembra che non molti se ne siano resi davvero conto»: così afferma lo storico della Chiesa Alberto Melloni, che invita a considerare bene le parole pronunciate dal papa nel corso della sua visita a Lampedusa lo scorso 8 luglio. Cfr. A. Toninelli, «Lampedusa, omelia programmatica di un pontificato», in «La Stampa», 16 luglio 2013 – bit.ly/3YnpnyC (ultima consultazione, 22.08.2023).

2 Francesco, Omelia in occasione della visita a Lampedusa, Campo sportivo “Arena” in Località Salina, 8 luglio 2013.

3 Ibidem.

4 G. De Simone, L’utopia Mediterranea. Lo straniero diventa prossimo, in V. Petito, A. Trupiano, Il seme dell’utopia, Orthotes, Napoli-Salerno 2023, p. 83.

5 F. Montenegro, Le acque il porto la porta, intervento a Lampedusa dell’8 luglio 2023.

6 Giunti per l’anniversario della visita del papa con il cardinale F. Montenegro, mons. G. Perego e mons. P. Felicolo – insieme alla rappresentanza dell’Apostolato del Mare, della Fondazione Migrantes della Cei e della diocesi di Agrigento – e con mons. A. Leproux, vicario generale della diocesi di Marsiglia.

7 G. De Simone, L’utopia mediterranea. Lo straniero diventa prossimo, cit., p. 106.