Libertà religiosa vo cercando

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La libertà religiosa, lo sappiamo, è storicamente e logicamente il primo dei diritti di libertà.
Storicamente, perché dopo la Riforma protestante che ruppe l’unità religiosa europea dando vita – tra l’altro – al pluralismo degli Stati sovrani, questi ritennero di vedere nel confessionismo il collante necessario e insostituibile per mantenere unita la comunità politica. Il principio «cuius regio eius religio», sancito nel 1555 dalla Pace di Augusta e confermato nel 1648 dalla Pace di Westfalia, venne a consacrare l’obbligo del cittadino di seguire la religione del proprio sovrano, così come venne a legittimare la politica di repressione delle minoranze religiose da parte del potere politico. Di qui la rivendicazione della libertà in materia di coscienza, cui poi seguirono le rivendicazioni delle altre libertà.
Ma la libertà religiosa ha anche una primogenitura in senso logico, perché a ben vedere i diritti di libertà via via consacrati nelle trasformazioni degli Stati in senso democratico, altro non sono che specificazioni della libertà religiosa, posto che questa è libertà di manifestazione del pensiero, è libertà di associazione, è libertà di riunione e così via. La libertà in materia religiosa, in altre parole, può essere considerata un prisma attraverso il quale riguardare tutte le libertà.
Però si può dire di più, e cioè che sussiste un preciso rapporto tra gli stessi diritti umani e la libertà in materia religiosa: questa non è solo il primo di tali diritti, ma ne costituisce addirittura il fondamento nella misura in cui, rivendicando la libertà della coscienza individuale dinnanzi allo Stato, pone all’autorità di questo il limite radicale in cui si sostanzia l’indisponibilità delle spettanze fondamentali che chiamiamo, appunto, diritti umani. Di qui ovviamente deriva che la violazione del diritto di libertà religiosa non lede soltanto uno di tali diritti, ma mette in crisi l’intera categoria dei diritti umani.
Eppure, nonostante queste precedenze e questi primati, nel mondo contemporaneo la libertà religiosa nella sua dimensione individuale, collettiva e istituzionale, risulta il diritto fondamentale più minacciato e violato. Gli osservatori continuano a denunciare che su dieci cittadini del mondo almeno sette sono, ancora oggi, impediti o lesi nelle spettanze che dovrebbero essere loro riconosciute in materia di coscienza. E la cosa singolare è che i più vessati in materia sono i cristiani: secondo l’ultimo rapporto di Aiuto alla Chiesa che soffre (2019), intitolato Perseguitati più che mai, sono trecento milioni gli individui la cui vita è oggi in gioco a causa della loro fede in Cristo.
Si tratta di numeri ragguardevoli, fermo restando che anche una sola violazione di un diritto umano è fatto di inaudita gravità. La cosa che più colpisce è che il numero dei perseguitati per motivi religiosi cresce anziché, come avviene per altri diritti umani, diminuire. Una serie di ragioni concorrono a dare conto di un fenomeno tanto inatteso, quanto consistente e grave.
Innanzitutto l’intolleranza che scaturisce da un fondamentalismo religioso, che non riguarda solo l’islam e che tende ad allargarsi progressivamente dal quadrante mediorientale al continente africano fino all’Asia meridionale. Si tratta di un fondamentalismo religioso spesso miscelato con forme di nazionalismo, che rendono progressivamente esplosive realtà un tempo immuni dall’intolleranza religiosa. Il fenomeno non nasce solo dalla violenza pubblica, dalla non democraticità dell’ordinamento statale, ma anche dalla crescente violenza di gruppi privati espressivi di culture e credo religiosi della maggioranza. Tipica in questo senso la situazione dell’India, paese di grande civiltà, di significative tradizioni culturali e di indubbia democraticità ispiratrice del suo ordinamento, in cui però le violenze antireligiose crescono col rinfocolarsi nel corpo sociale di sentimenti intolleranti da parte dei professanti la religione tradizionale. La concorrenza della violenza pubblica e di quella privata mostra il suo volto atroce in alcuni paesi, come dimostra in maniera esemplare la vicenda di Asia Bibi, su cui riferisce Stefano Vecchia. Un caso davvero da manuale.
Vi è poi una intolleranza che nasce per ragioni politico-economiche. Singolari in questo senso le violenze che cattolici – vescovi, preti, laici – vengono a subire in diverse realtà del continente latino-americano, in ragione della resistenza che la Chiesa fa al dilagare di un’economia di rapina, favoritiva dell’accrescersi del divario tra (pochi) ricchi e una moltitudine di poveri, manipolatrice e distruttrice dell’ambiente. Le denunce che sono venute in tal senso dal recente Sinodo sull’Amazzonia sono assai chiare ed eloquenti. Ne parla Lucia Capuzzi.
C’è poi il singolare fenomeno, stigmatizzato da Paolo Cavana, dei “sovranismi” di destra e di sinistra, che sono in ascesa e si pongono come reazione ai processi di globalizzazione da un lato e di speculare declino della forma di Stato moderno dall’altro. I sovranismi, infatti, nel nome della salvaguardia delle identità nazionali conducono non di rado a più o meno esplicite forme di intolleranza nei confronti delle minoranze religiose. Qui emerge, tra l’altro, il delicato tema dei limiti legittimi da apporre, o che possono essere apposti, all’esercizio di un diritto che deve essere contemperato con gli altri in una società democratica. Su questo terreno difficile conduce la lettura del saggio di Manuel Ganarin. Ma c’è anche un’intolleranza che manifesta il suo volto sinistro nei paesi opulenti del Nord del pianeta, nell’Occidente che si inorgoglisce per i traguardi raggiunti proprio nel riconoscimento e nella tutela dei diritti umani, spesso preso dalla tentazione al proselitismo di una concezione individualistica estrema, che tende alla consacrazione come diritto umano di ogni desiderio. Con l’effetto singolare, tra gli altri, di determinare in molti casi un conflitto insanabile tra diritti fondamentali.
Si tratta di una situazione paradossale, perché questo Occidente per un verso si fa missionario dei diritti umani, talora addirittura di “diritti” presunti tali: si pensi alle battaglie per universalizzare l’aborto come diritto o, più in generale, i cosiddetti diritti in materia riproduttiva; ma si pensi anche alle rivendicazioni in materia di gender. Per altro verso tuttavia questo Occidente trascura, quando non direttamente colpisce, il primo tra i diritti in questione: la libertà religiosa, appunto. È disposto a spendersi strenuamente, nel mondo, per tutti gli altri diritti umani, anche per quelli che tali non sono, ma non per la inviolabilità delle coscienze.
Ciò nasce spesso – come chiarisce Daniela Bianchini – per un chiaro fattore ideologico, vale a dire una laicità dello Stato e delle istituzioni pubbliche che in realtà è sostanziata di laicismo. Qui alla neutralità degli apparati pubblici di fronte alle libere scelte dei consociati in materia religiosa, subentra una ideologia insofferente di altre credenze, le quali di conseguenza vengono sospinte fuori, fino a sparire dalla pubblica agorà. La vicenda dei simboli religiosi in Francia è troppo nota per essere qui rievocata. Ma non vi è paese europeo che non abbia avuto querelles sui simboli religiosi, sul rispetto delle identità dei diversi gruppi religiosi, sulla garanzia di luoghi di culto per le confessioni minoritarie o in materia di trattamenti sanitari. La lettura dei repertori di giurisprudenza delle Corti nazionali e della Corte europea dei diritti
dell’uomo sarebbe, al riguardo, un esercizio assai proficuo.
Ma ciò che più colpisce dell’Occidente è la timidezza, se non addirittura il silenzio – un silenzio “tonante”, verrebbe da dire – a proposito delle gravissime violazioni della libertà religiosa che, quotidianamente, si perpetrano in varie parti del pianeta. I mass media riportano quasi quotidianamente notizie in merito, riguardanti singole persone o intere collettività. Ma le potenze del Nord del mondo tacciono; le diplomazie guardano altrove. Spesso la Santa Sede si trova sola, nella società, a levare la propria voce di condanna e di rivendicazione dei diritti di tutti, non solo dei cattolici, come sottolinea mons. Paul Richard Gallagher.
Perché quel silenzio? È da pensare che il processo di secolarizzazione, avendo spento ogni apprezzamento del fatto religioso, abbia conseguentemente indotto il convincimento che per esso non valga la pena combattere. Parafrasando la nota espressione, qualche barile di petrolio in più val bene il sacrificio dei diritti della coscienza.
Sembra giunto il tempo per rileggere e approfondire il messaggio lasciatoci dal Vaticano II con la Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, e avviare un grande impegno dei cristiani diretto a ridestare, nel mondo, consapevolezza e impegno nella garanzia del primo dei diritti umani e quindi, come sottolinea in conclusione Giacomo Canobbio, nella difesa della verità della persona umana.