Tra Benares e Gerusalemme. Cristianesimo e religioni orientali

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La luce viene da Oriente. L’esperienza fisica si è trasformata presto in esperienza “spirituale”. Il sorgere del sole è diventato, nei popoli segnati dal cristianesimo, il sorgere del Sole. L’antica liturgia battesimale e la struttura degli antichi battisteri lo richiamavano: scendere nell’acqua da Occidente e risalire verso Oriente significava aprirsi alla Luce che è Cristo, come soprattutto nel Vangelo di Giovanni si confessa fin dall’inizio (cfr. Gv 1,9). Ora pare che ad alcuni gruppi di persone questo non basti più: restano rivolti ancora verso Oriente, ma questo non è più Cristo – almeno non lo è più esplicitamente – bensì le religioni che sono nate e si sono sviluppate in Asia, in particolare il buddismo e l’induismo. Permane il fascino dell’Oriente, ma non più nella forma di una figura storica “discesa dal cielo”. Nel fenomeno allusivamente richiamato, e che in questo Dossier Franco Garelli delinea brevemente, si può vedere una duplice contestazione alla religione cristiana come si è configurata in Occidente, soprattutto sotto l’influsso del diritto romano e germanico. Il cristianesimo ha assunto la forma di religione strutturata, preoccupata della verità dottrinale, poco incline alla coltivazione dell’interiorità personale, sospettosa della pluralità di orientamenti. Così almeno è da molti recepito. Da esso si cerca pertanto di uscire, con senso di liberazione, verso forme di spiritualità che privilegiano la concentrazione e il distacco dalle cose, e verso un pluralismo di visioni non costringenti, sulla scorta della convinzione che il Mistero trascendente è molti nomi, come ricordava il teologo cristiano-indù Raimon Panikkar, non a caso diventato ispiratore anche di molti cristiani che vogliono continuare a restare tali. Il cristianesimo occidentale è percepito come eccessivamente rigido: la storia vi occupa troppo spazio e con essa le determinazioni culturali, che si trasformano in determinazioni dottrinali. Si avverte il bisogno di maggiore libertà personale, che tende a coincidere con forme di apofatismo negativo, diverso da quello della tradizione occidentale – ispirato a Dionigi lo Pseudo-areopagita – che mediante l’analogia manteneva la possibilità di dire la realtà trascendente. Chi guarda a Oriente ha la sensazione di prestare maggiore attenzione alla vita terrena, alla sua caducità; abbandona la pretesa di fissare regole identiche per tutti; ricerca percorsi di liberazione, che hanno anche risvolti dottrinali; vuole re-immergersi nel cosmo come parte di esso, lontano da ogni forma di antropocentrismo, che sarebbe peraltro una delle cause dei disastri ambientali che l’Occidente ha provocato. Volgersi a Oriente è prestare attenzione alle esigenze dello spirito, ricuperare il valore di ritualità legate al ciclo della natura, riconciliarsi con il destino senza pretendere di dominarlo, abbandonarsi a leggi inscritte nel profondo della realtà. È ricerca di una salvezza olistica, nella quale corpo e anima si comprendono orientati verso un trascendimento che coincide con il ritorno al Tutto del quale si è parte e nel quale si desidera essere dissolti, senza tuttavia perdersi.

Non si tratta semplicemente di new age o di gnosticismo. Chi si volge a Oriente in modo serio e quindi pensoso, va alla ricerca di esperienze religiose liberanti, quasi lì si potesse raggiungere il senso profondo di ogni religione, la radice degli esseri umani, per poter rinascere in una forma di nuova innocenza, che l’Occidente avrebbe perduto. Non importa se nella tradizione cristiana vi sono molti degli aspetti che si cercano altrove. Il fatto è che restano nascosti, quasi oscurati da apparati istituzionali e dottrinali eccessivamente pesanti, perfino soffocanti. Riconoscerlo permette di avviare anche ufficialmente dialoghi finalizzati a comprendersi anzitutto, poi a verificare quali elementi delle rispettive visioni possano contribuire a lavorare insieme per una umanità fraterna, per una riconciliazione non dispotica con la natura. Il Concilio Vaticano II, soprattutto nella dichiarazione Nostra aetate aveva aperto la via al dialogo, anche sulla scorta di esperienze pilota (si pensi a Jules Monchanin, Henri Le Saux, Bede Griffiths, i cui tentativi di sintesi tra induismo e cristianesimo, sono descritti per cenni da Paolo Trianni). La via aperta dal Concilio ha permesso nuove esperienze: il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso negli ultimi decenni ha vissuto e proposto incontri di dialogo con rappresentanti delle religioni orientali, come Lucio Sembrano illustra nel suo contributo; religiosi inseriti in contesti orientali (qui sono due saveriani: sr Maria A. De Giorgi, che opera in Giappone, e p. Sergio Tasca, che ha vissuto molti anni in Bangladesh) illustrano le possibilità viste, i tentativi compiuti e le difficoltà incontrate nella realizzazione del dialogo con buddisti e indù, evidenziando anche le inevitabili differenze tra i livelli ufficiali e quelli popolari. La posta in gioco è alta: vi sono visioni della realtà notevolmente diverse (cultura e religione, soprattutto in Oriente, si sovrappongono) e quindi difficilmente conciliabili. Benché le religioni siano finalizzate alla salvezza delle persone, in dipendenza dalla visione della realtà e del divino, anche le concezioni di salvezza non appaiono facilmente sovrapponibili, come p. Bryan Lobo mostra nel suo contributo. Per chi vive in contesto ebraico-cristiano e musulmano non è difficile cogliere la differenza.
Nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam l’esperienza di salvezza si attua grazie all’incontro con un Dio personale che parla all’uomo rivelandosi con parole ed eventi, senza identificazione con il cosmo, ritenuto sua creazione. Dio che si manifesta come persona, volontà e parola. Questa visione ha contribuito a definire, sia pur lentamente, l’uomo occidentale nella sua identità: è anch’egli persona, volontà e parola. Nelle religioni nate in India, il divino non si manifesta all’uomo dall’esterno, l’esperienza accade nell’interiorità di ciascuno come scoperta del fondamento del proprio essere e del cosmo. Il divino è “metaindividuale”, al di là di tutti gli attributi, compresi quelli della volontà e della parola.
Una volta colta tale realtà, sia l’io individuale sia il cosmo sfumano nell’insignificanza. L’individualità viene assorbita e la storia viene radicalmente relativizzata. Sin dai tempi più antichi le religioni dell’India sono state caratterizzate dalla pratica della meditazione e dalla teoria del karma-samsara (la ruota delle reincarnazioni e le conseguenze delle azioni su una determinata sequenza di reincarnazioni).
Si può allora parlare di religioni del confronto con il divino, quelle nate da Gerusalemme, e di religioni dell’interiorità del divino, quelle nate da Benares, la città attraversata dal fiume sacro, il Gange. Va certamente mantenuta la cautela metodologica di considerare l’insieme delle differenze come tipi ideali (Max Weber), come a dire: i due tipi non esistono allo stato puro, ma
si influenzano reciprocamente ed esistono pure versioni miste o di compromesso.
Proprio per questo appare necessario proseguire il dialogo sia nelle forme ufficiali, sia in quelle che coinvolgono i fedeli e sembrano più restii a riconoscersi reciprocamente. La preoccupazione di perdere l’identità si evidenzia soprattutto dove si fatica ad accettare che la propria religione non è l’unica possibile. Questo si riscontra soprattutto dove il cristianesimo è in minoranza. Diversa sembra la situazione in Italia, dove gruppi di buddisti e di induisti, che costituiscono una minoranza, benché in crescita grazie alla presenza di immigrati, si mostrano maggiormente disposti ad accettare collaborazioni, come attestano le tre interviste (Brunetto Salvarani, Mauricio Yushin Marassi e all’Unione Induista Italiana [Svamini Hamsananda Ghiri]) che completano il Dossier. Da esse si riesce a cogliere che lo sguardo a Oriente di gruppi italiani non dimentica la loro matrice culturale europea (pur relativizzandola e mostrandone i limiti, tra i quali in particolare l’abbandono del senso religioso) soprattutto per quanto attiene al pluralismo religioso e quindi alla possibilità non solo di coesistenza pacifica tra appartenenti alle diverse religioni, ma anche di impegno comune per un’umanità fraterna. In questo senso la recente enciclica di papa Francesco Fratelli tutti diventa un collante. Ci si avvede sempre di più che la salvezza anche storica dell’umanità passa per riconoscere che alla base delle religioni c’è un anelito e un’esperienza di salvezza che non sono solo di qualcuno, ma di tutti.
Riconoscerlo costituisce il presupposto per costruire un futuro nel quale le molteplici vie di incontro con Dio non diventino motivo di conflitto, bensì di fratellanza, senza che nessuna di esse perda la sua singolarità. La pur minoritaria presenza di aderenti alle religioni orientali si propone pertanto come stimolo a recuperare il senso etico-religioso della vita nell’ordine del cosmo, che è insieme l’habitat di Dio e dell’uomo.