Iran, se le donne guidano la rivoluzione

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Dal 16 settembre, data della morte di Mahsa Amini, l’Iran è teatro di scontri in cui le donne sono in prima linea. Sarebbe riduttivo, però, non riconoscere che il malcontento è generale e coinvolge tutta la società iraniana. Ricostruire gli eventi e i motivi delle proteste, inquadrandoli storicamente e politicamente, è l’obiettivo di questo contributo.

Nel luglio scorso, un video ha cominciato a circolare sui social, turbando la precaria pace degli ayatollah. Le immagini mostravano la lite su un bus di Teheran fra la ventottenne Sepideh Rashno e una donna completamente velata. Quest’ultima urlava contro la ragazza, “colpevole” di avere il capo scoperto. Nei giorni successivi, episodi simili si sono ripetuti fino a quando il regime non è intervenuto con il pugno di ferro. Sepideh Rashno è stata arrestata e costretta a pubbliche scuse in tv. L’ordine era stato ricostituito. L’illusione immobilista, tuttavia, sarebbe durata poco. Due mesi dopo, il 16 settembre, la morte di Mahsa Amini, mentre era in stato di fermo per avere indossato il velo o hijab “in modo inappropriato”, ha fatto scoppiare l’incendio che tuttora brucia l’Iran. A cominciare la protesta è stata una piccola folla, radunata fuori dall’ospedale della capitale dove la ventiduenne era stata ricoverata, in fin di vita. Il giorno successivo, durante i suoi funerali a Saqqez, la cittadina del Kurdistan iraniano di cui era originaria, alcune ragazze si sono scoperte la testa al grido: “Zan, Zendegi, Azadi” ovvero “Donne, vita, libertà”. In breve, l’antica rivendicazione del femminismo curdo è risuonata nelle piazze e nelle strade delle metropoli come dei piccoli centri dell’Iran intero, mentre le giovani bruciavano veli, cantavano, piangevano, marciavano alla testa dei cortei. La “rivolta dell’hijab”, inteso nel suo significato politico più che religioso. Quel pezzo di stoffa è diventato l’emblema dei diritti femminili negati o mutilati dalla Repubblica islamica. In fondo, è stata quest’ultima a trasformarlo in un simbolo: il corpo delle donne è stato il campo di battaglia su cui fronteggiare i governi laici. L’ordine di coprirlo, in nome della tradizione islamica – statuito fin dal marzo 1979 – è stato il contraltare del divieto di hijab in pubblico durante il regno di Reza Shah Pahlavi, nel 1936. Per questo, il rifiuto del velo – o, meglio, del suo obbligo – non implica un analogo rifiuto nei confronti dell’islam o dei suoi valori.

Sarebbe, però, fuorviante definire questa protesta “la rivoluzione delle donne”. Queste ultime sono, certo, in prima linea. Il loro malcontento, tuttavia, esprime quello della nazione nel suo insieme, ferita da anni di recessione – acuita dal Covid e proseguita nel post-pandemia – e asfissiata dalla crescente repressione. Le iraniane sono il motore di una ribellione che, da una parte si collega alle proteste femminili e non degli ultimi decenni, dall’altra, presenta tratti inediti.

Fin dalla costituzione della Repubblica islamica, 43 anni fa, le donne hanno dato vita a un’opposizione silenziosa. Mediante quello che il sociologo Asef Bayat ha definito «il potere della presenza». Un “femminismo della vita quotidiana”, capace di disputare lo spazio pubblico ai fondamentalisti senza campagne deliberate bensì con l’ostinazione dell’azione minima ma ripetuta. Nel lavoro, nello sport, nell’educazione, nell’arte, nei media, le donne d’Iran hanno cercato di resistere, sfidare e negoziare margini di manovra per ridurre il livello di discriminazione. Di fronte a un sistema che cercava di relegarle nel privato, queste hanno deciso di uscire. A mettere in crisi la strategia dei piccoli passi, è stato il tramonto degli esperimenti riformisti d’inizio anni Duemila. Con la chiusura degli spazi, il mondo femminile è andato in fermento, come dimostra la protesta nel 2017 delle “Ragazze di Revolution street”, ispirate dal gesto di Vida Mohaved, immortalata mentre si scopriva il capo per strada. L’anno successivo, per la prima volta, su impulso delle parlamentari entrate in Aula con i riformisti, c’è stato uno studio ufficiale sul gradimento del velo nell’opinione pubblica. Oltre la metà della popolazione – il 55%– si è espressa contro il suo obbligo. L’aprirsi di un dibattito pubblico sulla questione ha spaventato l’élite conservatrice è l’emblema dei valori tradizionali rivoluzionari. La magistratura, dunque, ha tagliato fuori dalla consultazione 2020 le rappresentanti più scomode insieme ai riformisti. Questo ha spinto al boicottaggio della competizione: alle urne è andato il 42% degli elettori, la quota più bassa di sempre. Le poche donne entrate in Parlamento erano di chiara estrazione conservatrice.

Il progressivo irrigidimento è culminato nel 2021 con la vittoria alla presidenza “duro” Ebrahim Raisi, un anno e mezzo fa, durante una consultazione da cui era stata tagliata fuori l’area moderata. Tra le misure emanate dal presidente per segnare la discontinuità con il passato troppo morbido, una serie di restrizioni sul velo e il riconoscimento facciale per identificare quante lo avessero tolto. In questo regime di tolleranza zero si inserisce la morte di Mahsa Amini, all’origine della rivolta. Quest’ultima, però, ha saputo coniugare l’istanza del riconoscimento della dignità femminile con un ampio spettro di questioni sociali. L’alleanza di genere contro un sistema escludente è scattata naturale: a sostenere le donne – che pure fanno da apripista – c’è una moltitudine di uomini che vedono nella giusta rabbia delle iraniane il culmine della loro stessa oppressione.

A differenza dell’onda verde del 2009 – il movimento contro la rielezione del conservatore Mahmoud Ahmadinejad –, stavolta la protesta non è rimasta confinata alla borghesia urbana, colta e intellettuale delle grandi città. Per la prima volta ha rotto gli argini, geografici e sociali. In contemporanea agli studenti universitari di Teheran, sono scesi in piazza commercianti e impiegati dei piccoli centri, mai prima d’ora toccati dalle proteste. Stavolta, addirittura, il governo ha quasi perso il controllo di un centro di solito pacifico come Oshnavieh. La perdita di consenso fra i ceti lavoratori è ciò che più preoccupa gli ayatollah. Al pari dell’attacco su larga scala, fatto che rende difficile l’intervento immediato delle forze di sicurezza. Queste ultime sono costrette a scegliere, in base alle priorità. Man mano che la protesta si dimostra capace di resistere, aumenta la repressione nei confronti dei manifestanti. Migliaia sono stati arrestati, le vittime sono centinaia ma è impossibile avere dei dati precisi.

In queste condizioni, per quanto potrà sopravvivere la “rivoluzione d’Iran guidata dalle donne”? L’ingrediente fondamentale della politica, come gli analisti insegnano, è il tempo. I politologi insegnano che, affinché una protesta possa dare luogo a un cambio di governo, deve riuscire a coagulare le proprie rivendicazioni in un’agenda a individuare una leadership. Al momento la situazione è ancora nella fase magmatica della rivolta spontanea. Un’evoluzione “politica”, però, non è esclusa.

Se questa avvenisse, la “rivoluzione d’Iran” intessuta dalle donne segnerebbe un precedente importante. Si tratta di un movimento di contestazione di un ordine ingiusto costituito di tipo pacifico e dal basso. In questo, la protesta è molto femminile e rappresenta un’alternativa al dilemma "accettazione passiva o violenza". In realtà, il caso iraniano fa irrompere sulla ribalta mediatica un fenomeno da tempo in atto. In vari frammenti di mondo, soprattutto in quelli dove maggiori sono gli abusi e più ferita la dignità, sono le donne le più pronte a contestare. Non, però, con le armi in pugno, bensì con la forza del proprio corpo. La fragilità apparente di quest’ultimo diventa la cartina di tornasole della fragilità reale del meccanismo repressivo con cui sistemi ingiusti e liberticidi cercano di rispondere.

È il corpo delle indigene amazzoniche esposto di fronte alle ruspe dei trafficanti d’oro e di legname come scudo protettivo della foresta e della vita, propria e altrui.

È il corpo delle madri, mogli, fidanzate, figlie e sorelle degli oltre centomila scomparsi della guerra alla droga messicana che, di fronte all’inerzia o alla connivenza delle autorità con le mafie, scavano in ogni angolo del Paese, alla ricerca di un frammento dei propri cari.

È il corpo esile e infagottato delle ragazzine afgane che sfidano i talebani con i libri in mano, chiedendo di poter tornare in classe, anche dopo le elementari.

È un corpo, sono molti corpi che si muovono all’unisono, cantando “Donne, vita, libertà”.