È la fine di agosto. In una Roma vacanziera e sonnacchiosa continuano a giungere – quel poco che riesce a filtrare nonostante l’assassinio di tanti giornalisti e la disconnessione delle reti – le immagini e le storie del massacro di Gaza, attuato con le bombe, la fame, le ruspe. Immagini bibliche di un popolo in fuga da due anni, con mezzi di fortuna, lungo le rive del mare, che seppellisce migliaia di morti e sopporta condizioni estreme di fatica e privazioni. Il governo Netanyahu annuncia di voler «finire il lavoro» radendo al suolo Gaza City entro il 22 settembre, il capodanno ebraico. La mozione all’ONU per il cessate il fuoco viene affossata dal veto statunitense. I papi – prima Francesco e ora Leone – parlano inascoltati.
Non c’è niente da fare. Questa sensazione di ineluttabilità ci opprime, davanti a tutta la potenza del male che si squaderna davanti ai nostri occhi.
Ma non possiamo non vedere. Sentiamo dentro di noi il comando che il Signore rivolge a tutti nella storia della salvezza: «Alzati!». Non riusciamo a stare seduti sul nostro comodo divano, magari commentando magistralmente la situazione politica del mondo. Non riusciamo a sederci a cena al cospetto di tutto quel dolore, inflitto da uomini ad altri uomini. Non un evento catastrofico naturale, ma una scelta precisa,una volontà di uomini e dei loro governi.
Dobbiamo alzarci. Almeno stare in piedi per rispetto, per solidarietà.
Ma come fare? Non siamo dei ragazzi, siamo adulti consapevoli e prudenti. Non siamo professionisti di manifestazioni pubbliche. Iniziamo a studiare le norme per manifestare: la questura, le vie di fuga, il preavviso. Non c’è tempo, è difficile. Soprattutto ci preoccupa la polarizzazione. Quali parole scegliere? Tutte sono state ormai strumentalizzate allo stremo, tutte ci sembrano strumentalizzabili, abusate per innescare ulteriormente il conflitto nella mente e nel cuore delle persone. Le bandiere sventolano l’una in opposizione all’altra.
La preghiera ci sgorga dal cuore, ma ci è chiaro di essere al crocevia fra tre religioni. Non si può essere confessionali, identitari. E neanche pensare che siano coinvolti solo i credenti, perché abbiamo a che fare, qui, con le basi stesse dell’umanità, della solidarietà fra esseri umani.
Iniziamo a bussare alle porte di tutti gli amici, di tutte le associazioni e i gruppi che conosciamo, per lo più in ambito ecclesiale. La risposta è timida: non si può far nulla, non abbiamo ancora ripreso le attività dopo la pausa estiva, ci vuole tempo. Ognuno si impegna per quello che può, personalmente. Ci sediamo intorno a un tavolo per riflettere, delineare una possibilità di lavoro comune.
Ma non c’è tempo. L’esercito israeliano attua implacabile gli ordini del suo governo. Scegliamo allora un gesto semplice: accendere una candela sul sagrato di Santa Maria del Popolo, nel centro di Roma. Una candela accesa è quello che resta dopo aver sfrondato di ogni parola o gesto che possa sembrare ostile a qualcuno. Piazza del Popolo: simbolicamente il popolo di Roma a fianco del popolo di Gaza. Maria: la madre che ha raccolto fra le braccia il giovane figlio, vero ebreo e vero palestinese, morto per la violenza degli uomini.
Scegliamo alcuni segni:
Lo stare – «Stavano presso la croce di Gesù sua madre [...] e accanto a lei il discepolo che egli amava» (Gv 19,25-26). Quando le orecchie e i cuori degli uomini e anche le porte del cielo sembrano chiuse e sorde al grido che sale dai poveri della terra, quando sentiamo tutta l’inutilità di quello che possiamo dire e fare, non resta che stare in piedi, al cospetto di tanto dolore e di tanta ingiustizia.
Il silenzio – Il silenzio delle parole, nessun microfono, nessun canto. Non è una festa. Il silenzio delle bandiere: non siamo schierati. Quando le parole e le bandiere diventano armi e vengono manipolate dalla propaganda degli opposti schieramenti, dobbiamo rinunciarci per ricercare una pace disarmata e disarmante, secondo l’appello di papa Leone.
Le candele – Universalmente segno di preghiera che sale al cielo, e luce accesa sul moggio, che illumina anche ciò che sarebbe più comodo far finta di non vedere. Memoria per quanti sono morti, da ogni parte, per piangerli insieme. Memoria per un intero popolo che rischia di spegnersi. Segno di speranza, perché sappiamo – come le sentinelle – che verrà la fine della notte.
Ci procuriamo candele e accendini, bicchieri per proteggerle dal vento. Le accendiamo insieme a pochi amici sul sagrato della chiesa, all’ora di cena. I figli ci aiutano a distribuire le candele, a spiegare. Ci sono solo alcuni cartelli semplici, nero su bianco: «Accendi una luce per Gaza». Niente bandiere, né microfoni, niente parole o canzoni.
Ci sembra in qualche modo importante essere lì. Le persone si fermano, accendono la loro candela. Alcuni pregano lungamente, in silenzio o a bassa voce. Molti ringraziano, dicono «era ora»: l’impressione è che tanti sentissero il bisogno di poter esprimere almeno il dolore, di far sgorgare il disaccordo e il disappunto per ciò che stava accadendo nel silenzio e con la connivenza di molti.
Altri esprimono rabbia, disappunto perché non siamo schierati: «bisogna schierarsi», dicono. Altri ancora cercano alibi per non aderire: «dove eravate quando in Spagna...?». «E l’Ucraina allora? E la foresta amazzonica (sì, anche quella)?».
C’è chi non sopporta di stare in silenzio, intona canti religiosi, accenna discorsi. Troppo nudo quel silenzio, non siamo abituati. Ma il silenzio di fronte a tanto dolore e a tanta ingiustizia forse è l’unica parola dignitosa, che non suoni vuota o di circostanza, come ben sappiamo quando la morte ci tocca da vicino.
Alla fine il sagrato della chiesa arde per Gaza. Anche i nostri cuori sono lì, insieme a quelli degli altri. I nostri corpi sono lì, a testimonianza e in solidarietà.
Anche altri stavano in quel momento mettendo in gioco i loro corpi, molto più eroicamente, esponendoli al freddo, alla stanchezza, al sopruso, per portare aiuto con la Global Sumud Flotilla, per spezzare l’assedio dell’impotenza e dell’indifferenza. È facile mettere in gioco solo le parole, stando ben attenti a tutelare con cura i propri corpi. Ma è mettersi in gioco anima e corpo che cambia le sorti, che innesca storie di salvezza.
Poi gli eventi si sono svolti velocemente. Di fronte all’entità dei crimini commessi a Gaza tutte le piazze del mondo si sono a poco a poco riempite. Tutte le persone di buona volontà si sono alzate in piedi, per dire basta.
Oggi una timida speranza di pace aleggia nelle nostre mani. Cerchiamo di nutrirla ogni giorno, in ogni contesto possibile, perché non vada perduta.

