Cosa ci fa comunità?

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Che cosa ci tiene insieme? A partire da che cosa possiamo sentirci una comunità, da che cosa nasce la trama di relazioni che ci identifica e ci consente di riconoscerci? Cosa vuol dire far parte di una comunità, prendere parte al suo destino, contribuire al suo costruirsi, portare il peso delle sue fatiche?

Cosa ci fa comunità? Quando abbiamo programmato questo Dossier non avremmo mai pensato che questa domanda potesse risuonare con tanta intensità nelle nostre giornate, nell’ordinarietà dei comportamenti e dei gesti. La situazione surreale in cui si trova il nostro paese a motivo del diffondersi dell’epidemia ci spinge a chiederci ancora di più: che cosa ci tiene insieme? A partire da che cosa possiamo sentirci una comunità, da che cosa nasce la trama di relazioni che ci identifica e ci consente di riconoscerci? Cosa vuol dire far parte di una comunità, prendere parte al suo destino, contribuire al suo costruirsi, portare il peso delle sue fatiche?
Ce lo chiedevamo a motivo dei cambiamenti vertiginosi innescati nelle relazioni dal processo di globalizzazione, a partire dalla metamorfosi del mondo, dal vertiginoso mutare del contesto delle nostre esistenze messo in moto dall’interdipendenza dei viaggi, dell’economia, degli scambi molteplici e continui, degli spostamenti – frequenti e massicci come mai erano stati prima – per motivi di lavoro o di studio: un muoversi sul territorio nazionale e internazionale, un essere qui e poi altrove, un andare e venire, un partire e ritornare che investiva gli anni, le settimane, i giorni; un non poter pensare di rimanere nello stesso luogo e nemmeno di poter vivere nello stesso luogo con le persone amate. Ce lo chiedevamo a partire dalla necessità di ripensare i legami nella distanza, di trovare forme di comunicazione più profonda in un mondo iperconnesso e in continuo movimento. Ed ora ci ritroviamo nella paradossalità di un isolamento di intere zone, nell’impossibilità di muoversi, di andare, nella forzata quiete di attività sospese, nel silenzio di incontri da evitare. Non più masse che si spostano, che condividono gli spazi nella frenesia quotidiana o nei momenti di distensione. Non più la celebrazione della fede in uno stesso luogo e neppure gli eventi della cultura o dello sport.
E allora cosa ci fa comunità? Lo siamo ancora?
Il bisogno di sentirsi parte di un’unica realtà di relazione è ora, se possibile, ancora più forte. Ci manca quello che un tempo avvertivamo come dispersivo e travolgente: la frenesia degli spostamenti, la molteplicità dei contatti e degli incontri. Ci manca quello che abbiamo tante volte lamentato come un ostacolo alla possibilità di una autentica vita di comunità.
Eppure proprio questo essere come sospesi tra solitudine e solidarietà, questo restare a casa portando la responsabilità della salute degli altri e dello sviluppo di una vicenda planetaria, ci fa cogliere come non mai che non possiamo essere staccati dagli altri, che nessun uomo è un’isola. Non lo sono le nostre famiglie, i gruppi di cui facciamo parte, il nostro paese. È bastato un invisibile microorganismo per farci rendere conto che i confini non tengono, che non è nelle nostre possibilità alzare muri che ci dividano realmente. Ogni sovranismo, anche quello paradossale dei sistemi sanitari che si riaffaccia come grottesco rigurgito nella drammaticità del momento, è negato dai fatti, ribaltato dall’evidenza. Solo insieme si può fronteggiare il problema; e solo insieme si può trovare una via d’uscita. In fondo anche il silenzio delle strade e il tempo solo apparentemente vuoto perché sottratto all’esteriorità ci aiutano a scoprire che le relazioni con gli altri sono più profonde del contatto fisico, che la comunicazione può avvenire anche a “un metro di distanza” o più ancora, ma che non possiamo farne a meno. Forse quello che stiamo scoprendo è che l’essere comunità non si può ridurre a questo o a quell’altro aspetto, non si può ingabbiare in schemi univoci.
È un fatto complesso, una dimensione essenziale che abbraccia l’umano e che ha bisogno di essere riscoperta nella inesauribilità dei suoi aspetti e delle sue implicazioni, e nella creatività delle sue forme che hanno la duttilità della vita e la profondità inafferrabile di ciò che ad essa dà senso. Non potevamo prevedere quello che sarebbe accaduto quando abbiamo pensato l’articolazione del Dossier, ma ora appare perfettamente centrata: un utile strumento per poter dar forma alle domande e cercare criteri di comprensione.
Così il contributo di Sandro Calvani apre una finestra sulla generazione 3CK, i ragazzi di terza cultura, che si sentono cittadini del mondo e mal sopportano l’idea che l’identità sia data da una nazionalità o da un passaporto, rivendicando l’ovvietà della concittadinanza globale sancita dallo jus humanum mundi. «In ogni analisi intellettualmente onesta – scrive Calvani – le ragioni biologiche scientificamente dimostrabili dell’unità del genere umano stravincono sulle ragioni politologiche delle divisioni […], non esiste un fondamento inoppugnabile di diritto internazionale che possa giustificare l’obbligo a caratterizzare come nazionale ogni cittadinanza umana in un luogo e in tutti i luoghi». Per ogni persona il massimo orgoglio dovrebbe essere nel poter dire «Cum civis humanus sum, sono un concittadino umano, l’unica specie esistente portatrice dei diritti umani universali su questo pianeta». Come pensare allora le differenti tradizioni culturali? Che cosa ne è della memoria dei popoli che i sovranismi difendono quale principio di identità compatte da sottrarre ad ogni possibile contaminazione? Il contributo di Piero Pisarra ci aiuta a riflettere sul ruolo della memoria e sulla sua ambivalenza. Benedizione e maledizione, la memoria accompagna il divenire della vita ed è essa stessa dinamica, un «reticolo di interpretazioni successive», una «trama in costruzione, fatta di deviazioni e di divagazioni, di innesti». Al centro della sua capacità di stabilire nessi, «di aprire la strada alle invenzioni più audaci o, al contrario, agli orrori più atroci» è «la dura – ed esaltante – esperienza della vita, dell’incontro con l’altro, con altri “mondi vitali” […], il confronto con altri sistemi di segni e di simboli».
Ciascuno di noi, sottolinea Carla Danani nel suo contributo, «oggi conduce la propria esistenza in una rete di relazioni di vario genere, costruendola non solo attraverso rapporti lunghi e corti, ma grazie a numerose comunità parzialmente sovrapposte e ben differenti, l’una caratterizzata dall’avere lo stesso sangue – come la famiglia –, l’altra dall’abitare nello stesso luogo – come il quartiere o il condominio –, un’altra ancora favorita dallo svolgere la stessa professione o dall’avere la stessa visione del mondo, oppure dal frequentare gli stessi siti e le stesse chat». Ognuna di queste condizioni può essere occasione per la costruzione di relazioni comunitarie qualora si accompagni a una dimensione soggettiva di relazione vissuta, di vita condivisa. «Il luogo dove si risiede […] non è più l’unica occasione o possibilità per la costruzione di comunità, perché le esistenze si conducono in una molteplicità di luoghi d’esperienza». Ma la prossimità e il riferimento ad un luogo non hanno perso per questo il loro significato in ordine alla costruzione di relazioni significative. «Il legame di ciascuno si amplia» offrendo occasioni di inedite alleanze, locali, mondiali, intergenerazionali e tra le specie, «da praticare in loco e in rete, nei comportamenti quotidiani e nelle scelte strategiche». Una grande responsabilità «per agire all’altezza della quale servono virtù e conoscenza».
Lo sanno bene, o meglio lo avvertono chiaramente senza bisogno di troppe teorizzazioni, i giovani che nell’ultimo anno sono scesi nelle piazze di tutto il mondo dando vita a una nuova forma di partecipazione e di cittadinanza, prospettando un nuovo modo di fare comunità. Di essi si occupa Elena Granata. «Questi ragazzi – ella scrive – non partono da grandi discorsi, da profeti che dicono loro in quale direzione andare, da complessi sistemi di pensiero e di azione. […] Partono dalla concretezza di un’idea che li avvince […]. La realtà la cambiano con le azioni, con progetti veri […]. È una generazione cooperativa e collaborativa per cultura, crede nella partecipazione e nella possibilità di allargare il numero degli attori intono al tavolo». «Noi novecenteschi abbiamo concepito la comunità e la fratellanza come processi dall’alto […]. Forse per loro la comunanza sarà orizzontale, qualcosa che nasce collaborando tra pari, dalle buone idee, non concorrenti, da nuove reti, strutturate o occasionali, da una galassia di energie positive che convergono verso un fine positivo. Dal basso verso l’universale».
Anche la Chiesa è comunità. Lo è a partire dal suo radicamento nell’Eucaristia e nella sua capacità di far casa con gli uomini. Duttilità e creatività le appartengono – come ci aiuta a comprendere mons. Gualtiero Sigismondi – a motivo della missionarietà che la connota. È quanto si coglie in modo particolare nella parrocchia, «struttura capillare di comunione e di missione» in cui la Chiesa particolare si fa locale abitando «le pieghe ordinarie della vita quotidiana». L’incarnazione in un territorio «garantisce il suo carattere popolare», non ne circoscrive i confini, ma amplia piuttosto il suo orizzonte missionario: è la spinta a cercare nella corresponsabilità e con audacia nuove modalità di presenza per passare, nella fedeltà al Vangelo, «dalla pastorale del campanile a quella del campanello, senza rinunciare al suono delle campane».
Ad essere comunità ci si forma in un costante impegno educativo e di discernimento che aiuti a leggere i cambiamenti e a ritrovare l’essenziale. E di questo discute il Forum del Dossier con Pierpaolo Triani, padre Francesco Occhetta s.j. e Luisa Alfarano.
Chiudiamo con una citazione di Vittorio Bachelet, instancabile tessitore di relazioni comunitarie, a cui – a quaranta anni dalla tragica morte – è dedicato il Profilo di questo numero. «La patria può essere il nostro Paese, la nostra città, la nostra regione, può essere la nostra nazione radicata in un territorio e coincidente o non con lo Stato, può essere lo Stato stesso, ma può essere una comunità di Stati, può essere anche, man mano che i confini si dilatano […] la comunità di tutti gli uomini».

(18 marzo 2020)