I Papi e la settima arte

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Fin dalle sue origini il cinema ha raccontato la figura del Papa dando vita a differenti tipologie di rappresentazione. Uno sguardo alla storia del cinema fino alle pellicole più recenti.

Fin dalle sue origini il cinema ha raccontato una figura particolare: stiamo parlando della persona del Papa, che nel corso della storia della settima arte ha conosciuto molte tipologie di rappresentazione.
Già nel 1896, a un anno dalla nascita del cinematografo dei fratelli Lumière a cui si attribuisce convenzionalmente la paternità del cinema, un breve filmato ci mostra papa Leone XIII all’interno del Vaticano. Nel brano audiovisivo, naturalmente uto e in bianco e nero, vediamo il Papa in tre distinti momenti, accomunati da un unico gesto: quello della benedizione. Una benedizione per il pubblico ma anche una benedizione per il neonato mezzo cinematografico, he di lì a poco sarebbe diventato una delle tecnologie più importanti del Novecento. È un filmato che celebra la figura papale, ne mostra l’autorevolezza, il potere, la caratura spirituale e insieme politica. I vestiti che indossa, il corteo che lo segue, lo scranno, la ieraticità del gesto della benedizione: ogni elemento della rappresentazione audiovisiva è pensato per dare risalto al suo ruolo e sancirne la centralità nel mondo occidentale del tempo.
Su questa stessa linea di raffigurazione si muove il Pastor angelicus, film documentario sulla vita di papa Pio XII girato nel 1942 da Romolo Morcellini. L’opera segna l’esordio nella produzione cinematografica del Centro cattolico cinematografico, organo istituito nel 1935 con il compito di formulare una valutazione morale dei film e allora diretto da Luigi Gedda, che firma anche la sceneggiatura (insieme a vari altri autori, tra cui anche Diego Fabbri ed Ennio Flaiano). Vi si racconta la “giornata tipo” del Pontefice e si conclude con la ripresa della solenne celebrazione in piazza San Pietro. Nelle intenzioni di Gedda, uno dei più attivi nella mobilitazione del mondo cattolico nel cinema, l’opera doveva celebrare il mito di papa Pacelli contro la ventennale retorica mitologica fascista e presentarlo come l’unico salvatore. Il buon pastore che sa guidare il suo gregge nelle intemperie del proprio tempo.
In un periodo storico in cui la centralità della Chiesa e della religione cattolica non è ancora messa in dubbio, il cinema, uno specchio in cui la società mette in scena se stessa, si fa portavoce di questa rilevanza. La rappresentazione inizia a cambiare drasticamente, infatti, con l’avvento della “città secolare”, in cui si inizia a mettere in dubbio, spesso in maniera molto polemica e a volte violenta, quella importanza. Nell’incipit de La dolce vita di Federico Fellini (1960) una statua del Cristo benedicente viene trasportata da un elicottero sopra i tetti di Roma per scomparire ai margini della nuova metropoli. Non c’è migliore raffigurazione della secolarizzazione, che dagli anni Sessanta inizia ad allontanare, anzi a bandire, il sacro dalla moderna società dei consumi che avanza. Con gli anni Sessanta, dunque, e in maniera ancor più radicale a ridosso del Sessantotto, la rappresentazione della figura del Pontefice subisce un drastico cambiamento. ssa diventa un bersaglio da colpire, accusare, deridere o addirittura eliminare.
Ed è quello che fa il grande regista spagnolo Luis Buñuel nel suo capolavoro La via Lattea (1969), dove arriva a rappresentare l’uccisione di un papa (ironicamente interpretato da lui stesso) di fronte a un plotone d’esecuzione. La pellicola racconta l’incontro tra due viandanti che si accingono a percorrere il Cammino di Santiago de Compostela e durante il loro viaggio incontrano personaggi che ripercorrono tutta la storia del cristianesimo e delle sue eresie. Attraverso una narrazione non lineare e surrealista il regista vuole metter in evidenza le incongruenze dei dogmi ecclesiastici e la maschera perbenista dell’istituzione in sé. Naturalmente la critica di Buñuel, che si definiva «ateo grazie a Dio», non è mai banale e si basa su una conoscenza profonda della materia che mette in scena, anche se il suo fine rimane quello di depotenziarla e di “liberare” l’uomo moderno dalle catene della radizione.
Il processo di riconfigurazione iconografica non si ferma qui, però, e continua, diventando sempre più radicale, con l’avvento della società postmoderna. In una realtà in cui a dominare è il pensiero relativista e post-metafisico, il depotenziamento nei confronti del “mito” del Papa sul grande schermo si fa ancor più aggressivo. Staccato da ogni ancoraggio spirituale e trascendente, il Papa diventa semplicemente un soggetto pubblico e politico da accusare delle più infamanti pratiche, capo malato di un’istituzione malata. In questo senso il film Amen di Costa-Gravas del 2002, tratto da Il vicario (1963) di Rolf Hochhuth, è certamente eloquente: vi si racconta senza mezzi termini la compromissione del papato e della Chiesa con il nazismo. Sul versante più popolare e quasi involontariamente comico, ma ugualmente critico, troviamo Angeli e demoni (2009), riduzione cinematografica del romanzo di Dan Brown (che anche con il Codice Da Vinci, 2006, aveva mostrato il suo profondo attacco alla Chiesa cattolica). Qui il Papa è al centro di un’intricata storia fatta di menzogne, lotta per il potere e i soldi, in cui ogni membro della Chiesa, passata e presente, è l’epitome della cattiva coscienza e del comportamento aberrante.
Da immagine rassicurante, nobile, eroica, siamo arrivati a una immagine totalmente negativa, capace di compiere delitti atroci (come compromettersi con il nazismo), che ha perso ogni ruolo pirituale e incarna soltanto la brama del potere e della ricchezza. La figura papale diventa l’emblema di una Chiesa corrotta nel passato e nel presente, attenta ai beni materiali più che a quelli spirituali e, nelle più recenti rappresentazioni, anche segnata da un vizio innominabile: quello della pedofilia e più in generale del disordine sessuale. Una Chiesa che nasconde, insabbia, mente. La serie televisiva I Borgia (2011-2013) con Jeremy Irons o film come Il caso Spotlight (2015) o Il dubbio (2009) sono tutti costruiti secondo questa tendenza e sembrerebbero indicare come il cinema contemporaneo sia fortemente caratterizzato da venature anticattoliche.
In realtà in tempi più recenti una serie di pellicole ha proposto un’immagine “altra” della Chiesa e del Papa, capace di contrapporsi e controbattere a quella nichilistica e anticattolica. Una raffigurazione che sviluppa un discorso più complesso, in cui le difficoltà e gli errori della Chiesa non vengono dimenticati ma anzi ffrontati, con uno spirito però di rispetto e di analisi attenta di tutte le dinamiche coinvolte.
Uno dei migliori esempi può essere considerato I due Papi (2019), film di Fernando Mereilles, in cui si immaginano i dialoghi privati tra papa Francesco I e papa Benedetto XVI nel periodo compreso fra l’elezione dell’uno e dell’altro. Un periodo turbolento per la Chiesa, tra scandali finanziari e sessuali, crisi di vocazioni, e che vede per la prima volta due Papi condividere lo stesso ruolo. L’opera non nasconde queste difficoltà e inserisce spezzoni tratti da servizi televisivi del periodo per dare una forte impronta realistica. Al tempo stesso, però, attraverso una felice invenzione di fantasia, ci racconta il confronto franco e diretto fra questi due personaggi, che dialogano su quale sia il loro compito e quello della Chiesa, sempre in bilico tra certezza e incertezza, fiducia e paura, in una rappresentazione molto umana, capace di avvicinare lo spettatore alla figura dei pontefici, svelandone l’anima. Il film, inoltre, ha anche il pregio di smontare una certa immagine che il mondo dei mass media ha costruito su Bergoglio e Ratzinger, spesso rappresentati, in maniera semplicistica, come uno l’antitesi dell’altro. Il conservatore contro il rivoluzionario, il teologo contro il pastore, e che invece qui vengono presentati con mille sfumature e sfaccettature, compatibili l’uno con l’altro. Incarnazione di una Chiesa che interroga sé stessa, facendo ammenda per gli errori commessi. La pellicola ci offre una versione finalmente non postmodernista e anticattolica, bensì tridimensionale, in cui è resa a tutto tondo la complessità di una figura che, prima di incarnare un ruolo, è anche e soprattutto un essere umano, che si muove tra dubbi e incertezze, senso di responsabilità e obblighi. Un buon pastore che si diverte a mangiare una pizza o a guardare una partita di calcio, mostrandosi umano e vulnerabile, come il popolo che è chiamato a guidare e a cui regala soprattutto la sua piena fiducia nella fede e nella grazia di Dio.