Le parole del sinodo: “giovani”

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Nella prima parte del documento della XV assemblea generale ordinaria voluta da Papa Francesco, conclusasi nel 2018, viene ripresa la famosa scena dei discepoli di Emmaus: «Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e  conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro» (Lc 24,13-15).

L’immagine rappresenta bene un’umanità in ricerca, che cammina e che, mentre cammina, non smette di interrogarsi. La scelta di questo brano come introduzione al documento del Sinodo dei e sui giovani sembrerebbe suggerire che questo modus vivendi dovrebbe essere fatto proprio dai giovani di questo tempo. D’altronde, quale figura veste meglio i panni di colui che è per definizione “in ricerca” – di un lavoro, di una stabilità affettiva e di vita, di un senso profondo e ultimo che colmi la propria esistenza?

Tuttavia, è lo stesso brano del Vangelo che smentisce questa idea: il discepolo è colui che – a prescindere dalla sua età anagrafica – nella sua ricerca si fa mettere in discussione dall’Altro, in un continuo scambio reciproco. L’immagine della locanda, della convivialità che mette a tavola persone diverse, si fa allora metafora del sinodo stesso, della modalità di “stare insieme”.

Praticare oggi questo stile sinodale, però, non è facile, perché implicherebbe il mettere insieme tempi di vita diversi, tempi che spesso non riescono a essere inclusivi dei giovani di oggi. Nelle parrocchie, nel mondo del lavoro, nello scorrere della quotidianità spesso i giovani si sentono tagliati fuori: li si vuole flessibili e precari sul lavoro ma si evoca il fallimento esistenziale se – varcata la soglia dei trent’anni – non hanno trovato un lavoro e una famiglia; in parrocchia si pretende di caricarli della responsabilità dell’educazione dei più piccoli eppure li si accusa di non avere solide fondamenta di fede. Schiacciati dal peso di una società che li reputa necessari e  inadeguati al tempo stesso, vivono una dimensione di perenne disorientamento dettata da un relativismo imperante e purtroppo visto come incontestabile.

Vivere in un mondo in cui ogni cosa è reale se è “reale per me” è la più grande fatica di questo tempo. È una fatica che coinvolge maggiormente i giovani perché sono i giovani i primi a mettere in discussione la realtà granitica che è stata lasciata loro in eredità. Diventa allora necessario un esercizio di discernimento comune, che  faccia del dialogo e del confronto intergenerazionale una risorsa preziosa.

La Chiesa, da questo punto di vista, ha tanto da offrire. È uno dei pochi luoghi in cui si può fare spazio all’incontro, all’ascolto, alla convivenza – che diventa comunione – di persone che altrimenti non avrebbero modo di incrociarsi. Per quanto possa sembrare strano (l’immaginario è spesso quello di una chiesa popolata da qualche sparuto gruppo di signore anziane) è il luogo dell’intergenerazionalità: quante associazioni non cristiane possono vantarsi di proposte che – anziché esasperare e inasprire il rapporto tra i giovani e gli adulti – suggeriscono percorsi in cui camminare insieme, facendo tesoro dell’esperienza di vita degli adulti da una parte e  dell’entusiasmo, dello spirito di iniziativa della capacità di stare dentro al cambiamento dei giovani dall’altra? Ben poche.

Può sembrare paradossale, ma è proprio l’intergenerazionalità della Chiesa a renderla una comunità dal cuore giovane, perché costringe a praticare l’arte di mettersi in ascolto, di validare l’esperienza altrui nonostante sia lontana dalla propria, di saper “stare” con l’altro e camminare insieme.