Trieste, piazza del mondo

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Piazza della Libertà, a Trieste, è un crocevia di vite che ogni giorno vi sostano in attesa di proseguire un viaggio iniziato percorrendo le rotte balcaniche, spesso in condizioni disumane. A prendersi cura di queste vite, quotidianamente, vi sono i volontari di “Linea d’ombra”. Perché a tutti sia garantito il diritto di andare liberamente verso la speranza di una vita degna di essere vissuta. 

 

L’esperienza di piazza della Libertà – la piazza davanti alla stazione ferroviaria di Trieste –, che noi chiamiamo “piazza del Mondo”, nasce da un gesto creativo, storicamente femminile, che produce una sorta di piccola rinascita.
Il gesto di toccare e curare un corpo ferito, umiliato, negato; il gesto di rimetterlo al mondo, quel mondo che, per il momento di passaggio che assomiglia a una nascita, è la piazza: non tutti ti odiano, ti cacciano, ti considerano indegno di vivere (perché se muori non importa a nessuno tranne che a una famiglia lontana...).
Non intendo, però, racchiudere in un contesto di genere il valore universale di questo gesto rivelativo. Tutt’altro. Il genere infatti, come dato naturale, culturalmente accolto e trasformato, si sviluppa in vastissime potenzialità per chiunque, producendo una visione spinoziana del corpo quale conatus, imaginatio et potentia. Si tratta del carattere generativo della relazione, la cui matrice è corporea. Il contatto, il tocco, la carezza, l’abbraccio, lo sguardo: tutti gesti che nella piazza si compiono con i migranti. E sono gesti politici, perché rimandano a un’esigenza di mondo, di un mondo che ancora non c’è, che forse non ci sarà mai, ma che deve esserci, se l’umano ha un senso: questione oggi molto in dubbio, almeno per chi non crede in una trascendenza.
La valenza del gesto ha trasformato una squallida piazza, veloce e indifferente passaggio cittadino e turistico – ma furtivamente percorsa da ombre umane – nel centro di riconoscimento di un diritto oltre i diritti. È un diritto che gli Stati aborrono: il diritto di andare liberamente verso la speranza di una vita degna d’essere vissuta.
Nella piazza noi incontriamo ogni giorno corpi migranti. Dire “corpi” non è dire meno che “persone”.
È dire di più. “Persona” è un termine giuridico, la cui origine è addirittura maschera. “Corpo” è molto più vasto: è anche l’inesprimibile nel linguaggio, le emozioni profonde nate nell’infanzia in cui, con la risposta ai bisogni elementari di sopravvivenza, inizia il lavoro di costruzione della soggettività. Il nutrimento psichico è nei primissimi e fondamentali anni della formazione strettamente legato al nutrimento fisico.
In piazza compaiono l’umiliazione fisica, la fame, la deprivazione. Riducono questi giovani uomini, che hanno spesso visto la morte in faccia, a una provvisoria condizione infantile, propria di ogni individuo profondamente umiliato. L’umiliazione profonda è un’umiliazione del corpo: la riduzione allo stato infantile di dipendenza che genera quella che, secondo Simone Weil, è la domanda fondamentale: “Perché mi si fa del male?”.
«C’è dalla prima infanzia alla tomba, in fondo al cuore di ogni essere umano, qualcosa che, malgrado tutta l’esperienza di crimini commessi, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male»: «Perché mi si fa questo?» Un «grido silenzioso che risuona soltanto nel segreto del cuore».
A questo grido noi rispondiamo in piazza curando, nutrendo, calzando e vestendo: ridiamo dignità ai migranti e li riconosciamo portatori di un diritto che nessuno Stato può riconoscere: lo chiamiamo “il diritto di Antigone”. Ricordate la risposta della figlia di Edipo al re di Tebe, che la condanna a morte per aver dato sepoltura al fratello ribelle, contravvenendo quindi all’editto reale di lasciarlo insepolto?
«Non ho ritenuto che i tuoi decreti avessero tanto potere da far trasgredire a un mortale le leggi non scritte». Noi in piazza sosteniamo il diritto dei migranti di obbedire alla legge non scritta.
Infatti, i migranti di cui noi ci curiamo sono coloro che non vogliono restare in Italia, ma andare altrove. Questi migranti dovrebbero essere fermati dalla polizia e costretti a fare domanda di accoglienza in Italia. Abbiamo deciso di occuparci di queste persone, mettendole in condizione di proseguire il viaggio.
Qua e là, in Italia e in Unione Europea, ma anche in Bosnia e altrove altri li possano accogliere, li possano aiutare: un’altra Europa, semisommersa, ma viva, attiva. Un’altra Europa che contiene in sé i germi di un futuro migliore di questo presente immerso in una violenza capillare, invisibile perché resa normale; un presente chiuso nel comando assoluto del denaro: per il denaro ci si uccide, si fanno le guerre, si massacrano i popoli.
Aiutare questi ragazzi, qualche volta anche famiglie con bambini piccoli, è un impegno quotidiano, faticoso certo, talora assillante, ma che ci dà senso. Sappiamo, al di là di ogni dubbio, che quel che facciamo è buono, positivo, giusto, vitale.
Sappiamo anche, però, che quel che diamo è molto meno di quel che riceviamo. Riceviamo niente di meno che il senso della nostra vita.
Così, il nostro impegno si può anche chiamare un furto di senso.

I “nostri” migranti vengono dalla Rotta balcanica: o meglio dalle Rotte balcaniche.
Tutte cominciano in Grecia, provenendo dalla Turchia, poi si articolano più a nord attraverso Macedonia, Serbia, Ungheria, Austria; oppure, Serbia, Croazia, Slovenia, Italia; più a sud, attraverso Albania, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Slovenia, Italia.
Un viaggio durissimo di violenza, fame, sete, rischio di morte: diverse centinaia i morti, ma certo molti di più dei pochissimi dati raccolti. Noi ne abbiamo avuto notizie dirette dagli stessi migranti, che talora ci mostrano sui cellulari le immagini dei compagni morti in viaggio.
Un viaggio tra le violenze della polizia: in particolare si distinguono per efferatezza quella croata, ungherese, rumena: quante volte abbiamo visto su quei corpi quei segni, anche di morsi di cani, di torture vere e proprie.
Nella piazza della Libertà di Trieste, la piazza del Mondo, c’è un incontro con la verità storica del mondo; con la verità storica dell’Unione Europea, che gestisce regolarmente una politica di violenza e di morte, pagando le feroci bande libiche, il dittatore turco, cui vende i rappresentanti del popolo curdo, che approva la recente strage di Melilla... È un’emersione del sottosuolo delle nostre società, su cui erigiamo la nostra vita di consumi, di fragile apparente ordine, di solitudine vera. Un incontro con l’inaccettabile della nostra vita sociale.
Noi cerchiamo, inoltre, di costruire reti, strade, fra punti, luoghi sociali, solidali, alternativi al regime di capillare violenza che è la cifra delle nostre società in cui la parola “democrazia” è solo uno straccio, ormai logoro. Consideriamo il nostro agire una resistenza costruttiva. L’orizzonte di un futuro diverso appare, al presente, invisibile. Noi cerchiamo di piantare semi per un futuro che non conosciamo