L’eterno nel quotidiano

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Il binomio tra eterno e quotidiano pone di fronte a due rischi: la diversione e la contrapposizione. L’invito, allora, sulla scorta di una lunga e inquieta tradizione di pensiero, è a interrogare la profondità dell’esperienza umana, ponendo la questione escatologica nel cuore dell’esistenza: che attesta l’esser nati e non solo il dover morire. Nella ricorrenza simbolica di un incessante acconsentimento e di una infinita custodia viene allora incontro la possibilità di parlare di un “quotidiano escatologico”.

La riflessione su “l’eterno nel quotidiano” fa i conti con una asimmetria: si dice “quotidiano” ciò che è alla mano, mentre “eterno” esprime una dismisura; l’uno è l’ovvio, l’altro l’inaudito. Nello stesso tempo, avvicinati, i due termini sembrano richiamarsi, rincorrersi, in modo inquieto.

 

 

Distrazioni

Blaise Pascal diceva che «gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso, per vivere felici, di non pensarci»1 ; per lo più si comportano come se fossero presenti alla morte in qualità di “spettatori”2 : la mettono in cornice come se si trattasse di qualcosa di determinato, di osservabile, ne fanno “casi di morte”. Ma la moltiplicazione di immagini, nello spettacolo, può accrescere la paura, far sentire più vicina la minaccia, e tuttavia arresta l’attenzione sul piano ontico: di un’oggettività contingente. La coscienza è distratta, così, dalla pertinenza della morte alla propria condizione ontologica: se resta estranea, alla morte si può pensare di far fronte con la fuga, o con l’attacco, con l’astuzia, o con l’ingegno, con la tecnica e l’organizzazione.
Nella storia del pensiero alcune speculazioni d’immanenza – ad esempio Hegel e Schopenhauer – hanno percorso le vie dell’immortalità facendo coincidere il compimento con il dileguamento nell’universale. Se Hegel salva il finito lasciandolo riassorbire nell’eterna corrente dell’infinito, Schopenhauer cerca la salvezza nell’annullamento stesso della finitezza: «nei due casi le conclusioni sono comunque raggiunte sacrificando la singolarità o, quanto meno, sacrificandone l’aspetto “fenomenico”»3 . Ma il misconoscimento della parte sembra contraddire la realtà dell’intero4 . Che si cerchi di dimenticare che le realtà del mondo sono segnate dal negativo, o che si provi a risolvere tale negatività, con le contraddizioni che le sembrano proprie, nel considerarla funzione di una identità sostanziale, nel suo insieme finalmente incontraddittoria, resta difficile tuttavia sfuggire all’osservazione di Adorno, il quale ammoniva che «la minima traccia di una sofferenza senza senso nel mondo dell’esperienza smentisce tutta la filosofia dell’identità che vorrebbe farlo dimenticare all’esperienza [...] Perciò la filosofia dell’identità è mitologia sotto forma di pensiero»5 . Mitologia rischiosa, aggiungeva, complice di pericolosi assolutismi nella sua legittimazione di asservimenti e prevaricazioni. Ma come stare alla realtà in sé del finito senza cedere alle diversioni, pur di segno opposto? Senza perderlo, ma anche senza, contraddittoriamente, assolutizzarlo? In quella precomprensione della morte che, comunque, è data, come sfuggire l’alternativa tra divertissement e risoluzioni mitologiche? È in questo nodo che la domanda circa una possibile relazione tra l’eterno e il quotidiano trova la propria plausibilità e radicalità, ma anche la propria inquietudine. Si potranno anche accettare risposte “a buon mercato”, ma qui si ricapitolano la possibilità e il senso di un compimento dell’esistenza: emerge qui la questione escatologica6 . L’essere umano comprende la morte come qualcosa che lo riguarda e che tuttavia non lo esaurisce: essa non riesce a ricomprendere tutto ciò che lo riguarda. Non solo: è qualcosa che vive parassitariamente di tutto ciò che non è nulla.

Falsi binari

Di fronte al binomio tra eterno e quotidiano si deve però, in primo luogo, sfuggire alla tentazione, tanto consueta quanto ingiustificata, di connotarlo irriflessivamente in senso valutativo binario: per cui se l’uno è buono, l’altro è cattivo. Nella contrapposizione che sembra ovvia, il quotidiano è il precario e il faticoso, mentre l’eterno è ciò che è sicuro e soddisfacente, questo è pienezza e quello difetto. Tale dinamica oppositiva offre una cattiva chiave ermeneutica, incapace sia di rendere conto delle attestazioni dell’esperienza sia di interrogare le proprie precomprensioni. Il discorso comune, peraltro, ricorre a nozioni piuttosto differenti di eternità7 : da un lato come ripetizione senza fine o immutabilità assoluta, indifferente al trascorrere del tempo e degli eventi, dall’altro come ciò che non ha un inizio né una fine o che, pur avendo avuto inizio, non avrà una fine. In tutti i casi, non ogni “per-sempre” – qualsiasi significato si possa attribuire all’espressione – è desiderabile, e non ogni “quotidianità” significa noia e grigiore: per il pane quotidiano, ad esempio, si può persino pregare. E l’inferno può essere detto eterno: è “l’eterno dolore” di cui narra la Divina Commedia di Dante, in cui si è condannati alla “morte eterna”. Si parla anche di “eterne promesse”, per dire che non si avverano mai e rinviano continuamente, sempre più estenuandosi e delegittimandosi di credibilità. Neppure è esperienza positiva aspettare, iperbolicamente, un’eternità: sembra davvero troppo oltre quanto è sopportabile; e se si parla di sonno eterno, eterno riposo, nulla eterno, come ad esempio fa Ugo Foscolo in Alla sera si intende la morte. Ci si compiace, invece, dell’amore eterno, e l’accento è ancora positivo quando eterna è la gratitudine.

Una lunga storia

Si deve quindi rimettere in movimento quella contrapposizione tra eterno e quotidiano, nell’oscillazione tra lode e disperazione, tra apprezzamento e biasimo. In compagnia delle riflessioni che provengono dalla storia antica del ricorrere dell’interrogazione, si tratta di osare il pensiero ad andare ancora più a fondo. Platone, nel Timeo, poneva una netta antitesi tra il mondo di ciò che è sempre, il mondo delle Idee, e il mondo della genesi e, trovando difficoltà a dire direttamente dell’eternità, capovolse la questione: fu il tempo a diventare per lui l’immagine mobile dell’eternità. Agostino, nel libro XI delle Confessioni, si chiese giustamente come può conoscere l’eterno, chi sta nel tempo, e nel De Trinitate propose una grande mossa: di passare dalla considerazione del tempo misurato al tempo vissuto. Boezio, nel De Consolatione Philosophiae (libro 5) tentò invece dei canoni, dicendo che qualcosa che è nel tempo, anche se non ha inizio né fine, trascorre, e non possiede la pienezza, quindi non è eterno. Spinoza, nell’Ethica, si trovò a risolvere invece tempo e contingenza come mera illusione, derivante dalla prospettiva parziale di chi non conosce l’unica sostanza: divina, eterna. Dio, in quanto unica realtà che è causa di se stessa, è eterno; ogni realtà particolare, modo dell’infinita potenza di essere, vi corrisponde nello sforzo di perseverare nell’essere. Se Spinoza diffidò dell’apparenza, Kant invece nella Critica della ragion pura considerò il tempo una forma a priori della sensibilità del soggetto, condizione di possibilità di esperienza e scienza. Si trovò però di fronte a inevitabili antinomie, che nell’apparire non trovavano soluzione, e postulò l’immortalità dell’anima nella Critica della ragion pratica. Rimandò però alla poesia quando, in La fine di tutte le cose (1794), si chiese che cosa possa significare che uno, quando muore, passa dal tempo all’eternità: è forse passare da un tempo a un altro tempo, oppure è la fine di ogni tempo e si tratta di un permanere che è tutt’altro dal modo in cui è pensato il tempo dell’adesso? Idea abissale e sublime, universale, ricorrente in tutte le culture, che pur non poteva dominare con il concetto. Dopo gli storicismi e la loro crisi, Martin Heidegger metterà in guardia dalla metafisica proprio perché basata su una idea fuorviante di eternità come presenza, e porrà in relazione stretta temporalità e cognizione della morte. Così anche in Max Scheler, ma con esiti divergenti, la fenomenologia inviterà a riferirsi alle costituzioni della coscienza del tempo: nel richiamo all’esperienza, tuttavia, alla vecchiaia si affianca il rilievo che la morte non risparmia la gioventù. Nell’interrogare il mistero dell’esistenza ritorna quindi il tema della morte, pur differentemente ripresentato. Si tratta però di un decentramento, di un riferimento inaudito, che forse non consente, lasciato a se stesso, di abitare davvero radicalmente la questione. Richiederebbe piuttosto di esser lasciato in controluce, nel percorso di un altro itinerario: rivolto in primo luogo all’inizio, alla nascita.

Incessante acconsentimento, infinita custodia

L’esperienza originaria, seppure immemore, da cui sembra derivare il senso del tempo – del termine e della finitezza come del perdurare, della spoliazione come della potenza generativa – si staglia su un duplice cespite: il «proprio esser posti a partire da ciò che non si è»8 e l’esperienza vissuta della morte di altre persone, soprattutto di coloro che ci sono care. Queste morti ci attraversano come perdite inesorabili: quel nulla può ripetersi. Anche se la morte di chi ci è caro non è la nostra morte, in essa ne esperiamo l’anticipazione. Come osserva Virgilio Melchiorre, «l’impossibilità dell’altro è ora, almeno in parte, una mia impossibilità: in questa comune impossibilità il silenzio dell’altro mi appartiene, non è una muta estraneità»9 . La partecipazione all’altro, infatti, non era nulla di esteriore e oggettuale: era un con-essere, un essere insieme. Così, nella morte, l’altro è consegnato a chi resta e, insieme, al proprio incancellabile essere stato così come è stato. Nella solitudine di chi muore – perché nessuno può entrare nella sua esperienza10 – accade insieme la consegna a una infinita custodia. Già qui, e poi nel non andare perduto di tale custodire, si rinnova quell’intessitura spazio-temporale dell’esistere che non può essere intesa solo sulla linea del tempo misurabile, che è spessore, e sconfina qualsiasi possibile conteggio di quantità: c’è il simbolo di quella profondità dei giorni che spinge a presentire l’orizzonte di un compimento. Da un lato, oggettiva, sta l’irreversibilità di un esser stato che ha, comunque, costruito la storia del mondo, dall’altro la ripresa che conserva nella possibile generatività ciò che, appunto, non è più se non nell’affidamento. Ma una ripresa generativa può fiorire solo sul terreno di un’esistenza accogliente: capace di stare nella logica del prima e del poi, del qui e dell’altrove, andando oltre la mera ripetizione ma anche oltre l’ambizione di una pretesa autosussistenza. È l’esistenza che si esercita in primo luogo nell’incessante acconsentimento, in cui si impara a conoscere sé e a discernere. Acconsentire a “che si è”, senza averlo deciso, e a “ciò che si è”, senza averlo scelto, nella responsabilità di ciò che si può diventare e far accadere, è logica della costruzione di sé in cui consegna e novità si intrecciano. Vengono incontro, qui, le parole di Paul Ricoeur, che osserva: «La mia nascita è il cominciamento della mia vita: con essa sono stato messo al mondo una volta per tutte e posto nell’essere prima di poter porre volontariamente alcun atto. Ora, questo evento capitale, in rapporto al quale dato tutti gli eventi della mia vita, non è un ricordo. Io sono sempre dopo la mia nascita – e in un senso analogo in cui sono sempre prima della mia morte; io mi trovo in vita, sono già nato»11. Si deve riconoscere che «tutto ciò che decido è dopo il cominciamento – e prima della fine. Ogni inizio da parte della libertà è paradossalmente legato a una non coscienza di cominciamento della mia esistenza stessa. [...] l’io è al tempo stesso più antico e più giovane di se stesso: è questo il paradosso della nascita e della libertà. [...] Occorre stabilire dunque il carattere limite di quest’ultima necessità»12. Non si nasconde, Ricoeur, che dinanzi alla propria impotenza può nascere la paura: appunto «di fronte alla potenza della necessità che in qualche modo mi sottrae l’iniziativa della coscienza»13. Ecco che «il consentimento placherà questo terrore riconciliandomi con le mie radici»14, perché «acconsentire ad essere nato, è consentire alla vita stessa con le sue opportunità e i suoi ostacoli; assumendo il limite che mi sfugge assumo la natura individuale che mi concerne così da vicino, accetto il mio carattere»15. Consentire incessantemente e sempre di nuovo alla mia vita, al mio inconscio, al mio carattere, è il modo d’esistere in cui si “ricapitola”16 lo spazio-tempo dell’“ogni giorno”. Il quotidiano, termine che deriva appunto dal latino quotidie, cotidie – composto da quot, “quanti”, e dies, “giorno” – vi si riprende come inquieta profondità e simbolo del senso dell’esistere.

Quotidiano escatologico?

L’adesione alla finitezza nell’acconsentimento e nella custodia è allora un modo attivo in cui circolano responsabilità e gratitudine, uno stare nella realtà del quotidiano che non significa acquiescenza passiva e rassegnata, perché la presa sulla realtà vi sa cogliere la latenza del possibile, che rinvia ad oltre e ad altro. Acconsentimento e custodia, abitati certo anche dall’ambiguità del negativo, sono consegna e ripresa, nell’apertura alla domanda sul senso: spazio-tempo in cui si esperisce, per quanto possibile all’esistenza umana, il rinvio a un poter accadere di compimento e novità, che è logica escatologica. In essi si attiva una dinamica simbolica, in pratiche di azioni e parole – personali ma anche sempre relazionali – di intessitura, riparazione, ricucitura, cura: indicando così sempre di nuovo l’orizzonte di un possibile compimento universale17. Si apre qui, in modo non contrario alla ragione, non solo la provocazione, ma anche lo spazio di accoglienza dell’esperienza di fede18.

Note 1 B. Pascal, Pensieri, trad. it., Bompiani, Milano 2020, 166, p. 2349. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. UTET, Torino 1978, §51380-384. 2 Cfr. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915), in Id., Opere 1915- 1917. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti, vol. 8, Boringhieri, Torino 1976, p. 137. 3 V. Melchiorre, Al di là dell’ultimo, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 35-36. 4 Cfr. ibidem. 5 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. Einaudi, Torino 1970, pp. 181-182. 6 L’escatologia, neologismo di ambito luterano per indicare i novissimi della teologia medievale, si occupa «dell’esito e del senso ultimo della totalità del mondo» (C. Ciancio, M. Pagano, L’escatologia: esperienza religiosa e interpretazione filosofica, in C. Ciancio, M. Pagano, E. Gamba, Filosofia ed escatologia, Mimesis, Milano 2017, p. 15), ed è segnata intimamente dalla contrapposizione tra «questo mondo» e un assetto radicalmente diverso, «nuovi cieli e nuova terra». Numerose e diverse sono le figure in cui è stata pensata l’escatologia (in Spengler ad esempio, come “escatologia negativa”: un compimento che si realizza nella forma del suo tramonto); molte riflessioni si sono rivolte alle sue relazioni con il messianismo (cfr. Benjamin, Taubes), con l’utopia, con la teleologia. Oltre al volume di Ciancio-Pagano, cfr. J. Moltmann, Das Kommen Gottes. Christliche Eschatologie, Kaiser, Gütersloh 1995; M. Borghesi, L’era dello spirito. Secolarizzazione ed escatologia moderna, Studium, Roma 2008; E. Aubin-Boltanski, C. Gauthier (edd.), Penser la findu monde, CNRS, Paris 2014; R. Guardini, Eternità e storia. La determinazione dell’esistenza nel pensiero di Platone e Agostino, Morcelliana, Brescia 2017; i numeri di «Filosofia e teologia»: Tempo Evento Eschaton 1/2000, Sul penultimo 1/2006, Eschaton e salvezza 2/2010, Delle cose ultime. Orizzonti dell’escatologia 3/2018; ma anche G. Dossetti, L’ Eterno e la storia. Il discorso dell’Archiginnasio, EDB, Bologna 2021. 7 Cfr. S. Giovine, Eterno/Eternità, in Parole che dici umane. Riflessioni linguistiche “Il morire e la morte”, “Il tempo e l’eterno”, Fondazione Stensen, a cura di M.C. Torchia, Accademia della Crusca, Firenze 2021, pp. 107-118. 8 V. Melchiorre, Al di là dell’ultimo, cit., p. 56. 9 Ivi, p. 65. Cfr. Agostino, Confessioni, IV libro, dove ripercorre la memoria dell’amico morto; cfr. anche Pirandello, sulla morte della madre, in Novelle per un anno, Mondadori, Milano 1980, pp. 1197 ss. 10 Solitudine che non significa però abbandono. 11 P. Ricoeur, Filosofia della volontà. I. Il volontario e l’involontario, trad. it. Marietti, Genova 1990, p. 428. 12 Ivi, p. 336. 13 Ivi, p. 435. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 437. 16 Il termine ci viene incontro da Ef 1,10. 17 L’etica non è estranea all’escatologia e tuttavia non la satura, lasciandosi rimettere in questione da quell’orizzonte di compimento che non si lascia prendere in concetto. 18 L’esperienza cristiana, ad esempio, fa incontrare i racconti dell’incarnazione – in cui rientra l’accoglienza materna di Maria –, della croce – che non afferma alcuna glorificazione della sofferenza ma piuttosto una condivisione senza riserve dell’esperienza umana, della Pasqua – esperita come tomba vuota e, sulla strada di Emmaus, compagnia e consegna in attesa della Pentecoste. La riflessione può vivere allora del duplice rinvio e della reciproca interrogazione di filosofia e teologia.